Il Tempio di Vesta sorgeva alle pendici del Palatino, là dove la piazza del Forum Magnum cominciava a salire verso il colle: un luogo consacrato e trasfigurato, isolato dallo spazio profano che lo circondava. Circolare e circoscritto, sembrava piuttosto un focolare.
Ed era esattamente un focolare: il Focolare dello Stato Romano.
La tradizione voleva che Vesta l’avesse rivelato a re Numa Pompilio, scagliando un fulmine che aveva incendiato una quercia secolare la cui fiamma bruciava senza spegnersi. Il successore di Romolo vide in quel prodigio la volontà divina ed eresse in quel luogo un altare protetto da un tetto di forma circolare e vi custodì il Fuoco Sacro di Vesta.
Quel fuoco non doveva mai spegnersi e la cura per tenerlo desto era affidata a un gruppo di sacerdotesse. Sei, scelte tra le ragazze più virtuose della nobiltà, ma anche della plebe, se la ragazza in questione possedeva le qualità richieste.
Le Vestali godevano di grande considerazione e infiniti privilegi, però, dovevano prestare voto di castità per tutto il periodo del servizio sacerdotale, che durava trenta anni e alla scadenza del quale ricevevano un grosso donativo e potevano rientrare nella vita privata e condurre una esistenza regolare e rispettata. Potevano perfino sposarsi. In caso di inosservanza delle regole, le punizioni erano severissime: flagellazione, se lasciavano spegnere il fuoco e morte, se non rispettavano il voto di castità.
Una morte tremenda: sepolte vive!
L’alba era vicina e le prime luci del giorno entravano scialbe e lattiginose dall’apertura nel soffitto circolare del vestibolo, il luogo più intimo e santo che custodiva l’Ara di Vesta su cui ardeva il Fuoco Sacro.
Le fiamme gettarono bagliori sul bel volto della vestale Ottavia che aveva trascorso la notte a sorvegliare il fuoco dell’altare. La nottata era trascorsa tranquilla, ma lei non aveva smesso un attimo di pensare agli avvenimenti del giorno precedente; aveva ancora nelle orecchie il clangore della folla che accompagnava il gladiatore Seilace al supplizio e lo sguardo smarrito della ragazza per difendere la quale il grande atleta era stato condannato.
Era un po’ stanca, ma la confortava il pensiero che di lì a poco qualche compagna sarebbe venuta a sostituirla.
Si alzò per gettare dell’incenso sul fuoco e passando accanto alla statua di Vesta, alzò lo sguardo sulla Dea.
Era davvero maestosa e solenne, pensò. Bella e matronale, nel morbido drappeggio del peplo: un po’ come Lucina Metello, sua madre, che a Roma tutti tenevano in grande considerazione.
Aveva notato quella somiglianza fin dal primo giorno che era entrata in quella stanza. Aveva avuto dieci anni, allora, e al Santuario doveva restare ancora sedici anni, prima di portare a termine il servizio sacerdotale. Da quattro anni aveva terminato il noviziato e preso i voti, ma non aveva ancora dato quello definitivo, per il quale doveva attendere altri sei anni.
Un profumo gradevolissimo aveva invaso l’ambiente, anche se un poco, quelle esalazioni acute e penetranti le procuravano leggero stordimento. Le luci del giorno cominciarono a rischiarare le ombre e lei si alzò per attizzare il fuoco con rami di pino, scoppiettanti e odorosi di resine.
Il crepitio delle fiamme scosse la figuretta seduta su uno scanno e appoggiata con le spalle ad una colonna nell’abbandono del sonno.
“Morfeo ti ha condotta nel mondo dei sogni, novizia Sabina?” le sorrise, restando a guardarla mentre si stropicciava gli occhi.
La luce del giorno scorreva sul pavimento. Illuminò gli oggetti ai piedi dell’altare: una torcia, un peplo e numerosi vasi; lambì la nicchia contenente i Penati che Enea aveva salvato dall’incendio di Troia e investì il Palladio, la scultura lignea raffigurante Atena con scudo e lancia.
“Ho ceduto al sonno? – la novizia scattò in piedi – Sono desolata, signora. Accetterò con gioia il castigo… ogni colpo di verga ”
“La verga può stare a riposo per quest’oggi.” sorrise Ottavia.
“Ma io merito di essere punita. – insistette la piccola – Se avessi fatto spegnere il Fuoco Sacro…”
Occhi quieti, dolcissimi, colmi di sogni e fantasie, Sabina, della potente famiglia dei Peto, era giunta da poco al Santuario. Graziosa e vivace era stata scelta per sostituire la Vestale Marcella Rufo. giunta al compimento del suo mandato sacerdotale.
“Se avessi fatto spegnere il Fuoco Sacro saresti stata fustigata. Le fiamme sono vive e non occorre far lavorare la frusta.” disse la giovane, pur sapendo che la severità delle pene era giustificata dalla frequenza degli incendi.
“Tu sei buona, signora. Se al tuo posto ci fosse stata la vestale Strabonia, sarei stata sicuramente punita.”
“Anche a me è accaduto di addormentarmi una volta, alla tua età… A tutte succede una volta almeno. E’ successo sicuramente anche alla sorella Strabonia, ma… forse a lei non hanno risparmiato la frusta. Però hai ragione, Sabina. Se ci si addormenta durante la consegna, il Fuoco Sacro potrebbe spegnersi e attirare sciagure. Per questo siamo in due a sorvegliarlo.” aggiunse, girandosi verso l’uscio e prestando orecchio ai passi che stavano avvicinandosi.
Era la vestale Clodia che veniva a prendere il suo posto insieme a una novizia. Ottavia lasciò la cella ed uscì all’aperto.
Filtrando tra le colonne, la luce del giorno le ferì gli occhi. Ottavia li protesse con la mano e si portò con passo veloce verso la Casa delle Vestali, lì vicino, dove viveva con le compagne.
L’aria si fece luminosa e i rilievi ornamentali dell’imponente architrave del Tempio dei Castori, sulla destra, fiammeggiarono.
Prima di varcare la soglia dell’atrio, la giovane si fermò a ravvivare la fiammella quasi spenta di un lucignolo ai piedi di un gruppo di statuette di Lari in una nicchia sulla destra dell’ingresso.
L’ancella atriense, una vecchia seduta su uno scanno all’interno della soglia, nel riconoscerla sollevò la testa; era molto vecchia e non doveva vederci bene. Fece l’atto di alzarsi e andarle incontro.
“Resta pure al tuo posto. – con un sorriso gentile la vestale la invitò a restare seduta – Non ho bisogno di nulla. Resta seduta.”
“Grazie a te, mia buona signora…. Le mie povere ossa! – sospirò quella – Non mi permettono più neanche di piegarmi su un’aiuola per raccogliere fiori da offrire a Nostra Signora. Ah… un tempo passavo giornate intere china per terra a raccogliere viole per farne ghirlande e… Ma perdonami, signora.- si interruppe con un sorriso quasi di scusa – Tu sarai sicuramente stanca ed assonnata ed io sto qui ad annoiarti con le mie ciance… Vai, signora. Non badare alle chiacchiere di questa vecchia.”
“Lo sai che mi piace parlare con te, Percennia. Però hai ragione! Sono stanca e un buon bagno porterà via la stanchezza.” disse e si allontanò verso la Casa delle Vestali, adiacente il Santuario. Raggiunse il portico di destra e il suo appartamento, al primo piano. Trovò ad attenderla due ancelle che l’aiutarono a lasciare nell’acqua tiepida della vasca di marmo del suo tepidario, la stanchezza e la sonnolenza della nottata trascorsa nella veglia.
Riemerse, più tardi, portando sulla pelle petali di rose e viole; un breve massaggio e le due ragazze le passarono la fascia subligaris intorno al seno e quella subligar intorno ai fianchi, gli indumenti intimi che le donne romane usavano alle terme e sotto le vesti.
“Dammi la stola.- ordinò all’ancella appena, questa l’ebbe aiutata ad indossare una tunica fresca di bucato – Che buon profumo!”
“E’ lavanda, signora.- sorrise l’ancella, poi riprese – Credevo che volessi andare a riposare, signora.”
“No, Artisia. – Ottavia controllò le pieghe della tunica -Voglio raggiungere le ragazze e aiutarle nei preparativi per la festa di Nostra Signora. Mancano solo due giorni alle Feste Floralie e le ghirlande non sono ancora pronte.” disse e si allontanò.
Due tripodi dai carboni accesi ardevano davanti al vestibolo; un’ancella si scostò per lasciarla passare; stava spazzando per terra. Dal retro dell’edificio proveniva acre e pungente, l’odore di immondizie date alle fiamme.
“Salute a te, signora. Il giorno ti sia propizio.” salutò l’ancella.
Ad Ottavia parve che il suo atteggiamento fosse più reverenziale che mai. Anche quello di Artisia e della compagna, pensò, le era parso lo stesso. Sorrise: la notizia dell’incontro con il famoso Seilace doveva aver fatto il giro.
“Salute anche a te, Tirsa.” rispose con un sorriso gentile; attraversò il vestibolo e raggiunse l’atrio, a cielo aperto. Anche qui due ancelle ramazzavano il pavimento e una terza stava ornando la statua di Vesta che occupava l’angolo destro dell’entrata. Sulla sinistra c’era un grosso candelabro già spento.
“Signora dal casto sorriso, a noi volgi il dolce sembiante.”
Un coro l’accolse, raggiunto il giardino soleggiato e arioso in cui si respirava profumo di rose e viole; da lontano vide il gruppo di ragazze che cantava. Stavano intrecciando ghirlande sedute per terra, ai bordi del laghetto prospiciente il tablino, dimora di ninfee e loti, all’ombra di sicomori rallegrati da ronzii e fruscii di ali.
“Ottavia. Ottavia. Vieni qui accanto a noi.” la invitarono.
Avvicinandosi passò accanto all’oecus, un sacello semicircolare al cui interno ardeva la fiamma di un piccolo braciere. Si fermò ad alimentarne le fiamme con fascine secche ed a profumarle con grani di incenso che prese da un’urna posata per terra. (CONTINUA)
brano tratto da “LA DECIMA LEGIONE – Panem et circenses” di Maria Pace
lo si può richiedere con dedica personalizzata,direttamente all’autrice
oppure in rete