La casa di VESTA

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Il Tempio di Vesta sorgeva alle pendici del Palatino, là dove la piazza del Forum Magnum cominciava a salire verso il colle: un luogo consacrato e trasfigurato, isolato dallo spazio profano che lo circondava. Circolare e circoscritto, sembrava piuttosto un focolare.

Ed era esattamente un focolare: il Focolare dello Stato Romano.

La tradizione voleva che Vesta l’avesse rivelato a re Numa Pompilio, scagliando un fulmine che aveva incendiato una quercia secolare la cui fiamma bruciava senza spegnersi. Il successore di Romolo vide in quel prodigio la volontà divina ed eresse in quel luogo un altare protetto da un tetto di forma circolare e vi custodì il Fuoco Sacro di Vesta.

Quel fuoco non doveva mai spegnersi  e la cura per tenerlo desto era affidata a un gruppo di sacerdotesse. Sei, scelte tra le ragazze più virtuose della nobiltà, ma anche della plebe, se la ragazza in questione possedeva le qualità richieste.

Le Vestali godevano di grande considerazione e infiniti privilegi, però, dovevano prestare voto di castità per tutto il periodo del servizio sacerdotale, che durava trenta anni e alla scadenza del quale ricevevano un grosso donativo e potevano rientrare nella vita privata e condurre una esistenza regolare e rispettata. Potevano perfino sposarsi. In caso di inosservanza delle regole, le punizioni erano severissime: flagellazione, se lasciavano spegnere il fuoco e morte, se non rispettavano il voto di castità.

Una morte tremenda: sepolte vive!

 

L’alba era vicina e le prime luci del giorno entravano scialbe e lattiginose dall’apertura nel soffitto circolare del vestibolo, il luogo più intimo e santo che custodiva l’Ara di Vesta su cui ardeva il Fuoco Sacro.

Le fiamme gettarono bagliori sul bel volto della vestale Ottavia che aveva trascorso la notte a sorvegliare il fuoco dell’altare. La nottata era trascorsa tranquilla, ma lei non aveva smesso un attimo di pensare agli avvenimenti del giorno precedente; aveva ancora nelle orecchie il clangore della folla che accompagnava il gladiatore Seilace al supplizio e lo sguardo smarrito della ragazza per difendere la quale il grande atleta era stato condannato.

Era un po’ stanca, ma la confortava il pensiero che di lì a poco qualche compagna sarebbe venuta a sostituirla.

Si alzò per gettare dell’incenso sul fuoco e passando accanto alla statua di Vesta, alzò lo sguardo sulla Dea.

Era davvero maestosa e solenne, pensò. Bella e matronale, nel morbido drappeggio del peplo: un po’ come Lucina Metello, sua madre, che  a Roma tutti tenevano in grande considerazione.

Aveva notato quella somiglianza fin dal primo giorno che era entrata in quella stanza. Aveva avuto dieci anni, allora, e al Santuario doveva restare ancora sedici anni, prima di portare a termine il servizio sacerdotale. Da quattro anni aveva terminato il noviziato e preso i voti, ma non aveva ancora dato quello definitivo, per il quale doveva attendere altri sei anni.

Un profumo gradevolissimo aveva invaso l’ambiente, anche se un poco, quelle esalazioni acute e penetranti le procuravano leggero stordimento. Le luci del giorno cominciarono a rischiarare le ombre e lei si alzò per attizzare il fuoco con rami di pino, scoppiettanti e odorosi di resine.

Il crepitio delle fiamme scosse la figuretta seduta su uno scanno e appoggiata con le spalle ad una colonna nell’abbandono del sonno.

“Morfeo ti ha condotta nel mondo dei sogni, novizia Sabina?” le sorrise, restando a guardarla mentre si stropicciava gli occhi.

La luce del giorno scorreva sul pavimento. Illuminò gli oggetti ai piedi dell’altare: una torcia, un peplo e numerosi vasi; lambì la nicchia contenente i Penati che Enea aveva salvato dall’incendio di Troia e investì il Palladio, la scultura lignea raffigurante Atena con scudo e lancia.

“Ho ceduto al sonno? – la novizia scattò in piedi – Sono desolata, signora. Accetterò con gioia il castigo… ogni colpo di verga ”

“La verga può stare a riposo per quest’oggi.” sorrise Ottavia.

“Ma io merito di essere punita. – insistette la piccola – Se avessi fatto spegnere il Fuoco Sacro…”

Occhi quieti, dolcissimi, colmi di sogni e fantasie, Sabina, della potente famiglia dei Peto, era giunta da poco al Santuario.  Graziosa e vivace era stata scelta per sostituire la Vestale Marcella Rufo. giunta al compimento del suo mandato sacerdotale.

“Se avessi fatto spegnere il Fuoco Sacro saresti stata fustigata. Le fiamme sono vive e non occorre  far  lavorare la frusta.” disse la giovane, pur sapendo che la severità delle pene era giustificata dalla frequenza degli incendi.

“Tu sei buona, signora. Se al tuo posto ci fosse stata la vestale Strabonia, sarei stata sicuramente punita.”

“Anche a me è accaduto di addormentarmi una volta, alla tua età… A tutte succede una volta almeno. E’ successo sicuramente anche alla sorella Strabonia, ma… forse a lei non hanno risparmiato la frusta. Però hai ragione, Sabina. Se ci si addormenta durante la consegna, il Fuoco Sacro potrebbe spegnersi e attirare sciagure. Per questo siamo in due a sorvegliarlo.” aggiunse, girandosi verso l’uscio e prestando orecchio ai passi che stavano avvicinandosi.

Era la vestale Clodia che veniva a prendere il suo posto insieme a una novizia. Ottavia lasciò la cella ed uscì all’aperto.

 

Filtrando tra le colonne, la luce del giorno le ferì gli occhi. Ottavia li protesse con la mano e si portò con passo veloce verso la Casa delle Vestali,  lì vicino, dove viveva con le compagne.

L’aria si fece luminosa e i rilievi ornamentali dell’imponente architrave del  Tempio dei Castori, sulla destra, fiammeggiarono.

Prima di varcare la soglia dell’atrio, la giovane si fermò a ravvivare la fiammella quasi spenta di un lucignolo ai piedi di un gruppo di statuette di Lari in una nicchia sulla destra dell’ingresso.

L’ancella atriense, una vecchia seduta su uno scanno all’interno della soglia, nel riconoscerla sollevò la testa; era  molto vecchia e non doveva vederci bene. Fece l’atto di alzarsi e andarle incontro.

“Resta pure al tuo posto. – con un sorriso gentile la vestale la invitò a restare seduta – Non ho bisogno di nulla. Resta seduta.”

“Grazie a te, mia buona signora…. Le mie povere ossa! – sospirò quella – Non mi permettono più neanche di piegarmi su un’aiuola per raccogliere fiori da offrire a Nostra Signora. Ah… un tempo passavo giornate intere china per terra a raccogliere viole per farne ghirlande e… Ma perdonami, signora.- si interruppe con un sorriso quasi di scusa – Tu sarai sicuramente stanca ed assonnata ed io sto qui ad annoiarti con le mie ciance… Vai, signora. Non badare alle chiacchiere di questa vecchia.”

“Lo sai che mi piace parlare con te, Percennia. Però hai ragione! Sono stanca e un buon bagno porterà via la stanchezza.” disse e si allontanò verso la Casa delle Vestali, adiacente il Santuario. Raggiunse il portico di destra e il suo appartamento, al primo piano. Trovò ad attenderla due ancelle che l’aiutarono a lasciare nell’acqua tiepida della vasca di marmo del suo tepidario, la stanchezza e la sonnolenza della nottata trascorsa nella veglia.

Riemerse, più tardi, portando sulla pelle petali di rose e viole; un breve massaggio e le due ragazze le passarono la fascia subligaris intorno al seno e quella subligar intorno ai fianchi, gli indumenti intimi che le donne romane usavano alle terme e sotto le vesti.

“Dammi la stola.- ordinò all’ancella appena, questa l’ebbe aiutata ad indossare una tunica fresca di bucato – Che buon profumo!”

“E’ lavanda, signora.- sorrise l’ancella, poi riprese –  Credevo che volessi andare a riposare, signora.”

“No, Artisia. – Ottavia controllò le pieghe della tunica -Voglio raggiungere le ragazze e aiutarle nei preparativi per la festa di Nostra Signora. Mancano solo due giorni alle Feste Floralie e le ghirlande non sono ancora pronte.” disse e si allontanò.

Due tripodi dai carboni accesi ardevano davanti al vestibolo; un’ancella si scostò per lasciarla passare; stava spazzando per terra. Dal retro dell’edificio proveniva acre e pungente, l’odore di immondizie date alle fiamme.

“Salute a te, signora. Il giorno ti sia propizio.” salutò l’ancella.

Ad Ottavia parve che il suo atteggiamento fosse più reverenziale che mai. Anche quello di Artisia e della compagna, pensò, le era parso  lo stesso. Sorrise: la notizia  dell’incontro con il famoso Seilace  doveva aver fatto il giro.

“Salute anche a te, Tirsa.” rispose con un sorriso gentile; attraversò il vestibolo e raggiunse l’atrio, a cielo aperto. Anche qui due ancelle ramazzavano il pavimento e una terza stava ornando la statua di Vesta che occupava l’angolo destro dell’entrata. Sulla sinistra c’era un grosso candelabro già spento.

“Signora dal casto sorriso, a noi volgi il dolce sembiante.”

Un coro l’accolse, raggiunto il giardino soleggiato e arioso in cui si respirava profumo di rose e viole; da lontano vide il gruppo di ragazze che cantava. Stavano intrecciando ghirlande sedute per terra, ai bordi del laghetto prospiciente il tablino, dimora di ninfee e loti, all’ombra di sicomori  rallegrati da ronzii e fruscii di ali.

“Ottavia. Ottavia. Vieni qui accanto a noi.” la invitarono.

Avvicinandosi passò accanto all’oecus, un sacello semicircolare  al cui interno ardeva la fiamma di un piccolo braciere. Si fermò ad alimentarne le fiamme con fascine secche ed  a profumarle con grani di incenso che prese da un’urna posata per terra. (CONTINUA)

brano  tratto da  “LA DECIMA  LEGIONE – Panem et  circenses”  di Maria Pace

lo si può richiedere con dedica personalizzata,direttamente all’autrice

oppure in rete

ANTICA GRECIA… IL MITO PELASGICO della CREAZIONE

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ANTICA  GRECIA… le origini: Pelasgo, il primo uomo della Terra

Si racconta che Filippo il Macedone a chi gli rimproverava di essere un “barbaro”  domandava:  “Che cosa intendete voi per Grecia?”
Il primo territorio designato con questo nome pare essere stato Dodona,  città della Trespozia, nell’Epiro; in precedenza tutto il territorio era chiamato “Terra degli Elleni”, da Hellas o Ellade, regione della Tessaglia e con questo nome, a partire dal VI secolo a.C. si identificarono tutte le popolazioni: dal Peloponneso all’Illiria, dall’Attica alla Macedonia, ecc.
Come e quando assunse quel nome? In realtà non si sa bene.
Secondo gli scrittori della Grecia classica ad arrivare per primi nel territorio furono i Lelegi, provenienti dalla Caria, ma vi trovarono un nucleo etnico arcaico, una popolazione autoctona: i Pelasgi, che pare si siano insediati nel Peloponneso partendo dalla Palestina intorno al 3500 a.C. e che in età classica dettero origine a quella che fu chiamata la “questione pelasgica”.
E’ con questo termine, infatti, che  furono indicati tutti gli abitanti della Grecia pre-ellenica.

Appartiene proprio a questo periodo il mito  greco più antico della Creazione. Siamo in epoca arcaica. Epoca in cui gli Dei non avevano ancora alcun potere, ma era una Dea Universale, ossia  La-Dea-di-Tutte-le-Cose a dominare sulla natura e le sue creature. Ed era la donna a dominare sull’uomo,  in  virtù della sua “misteriosa” capacità di procreare e  la successione era matrilineare, non essendo la paternità tenuta in alcun conto.              Era il Caos.
Eurinome era il nome di questa Dea-Universale il cui appellativo era “Colei che vaga in ampi spazi”.

Ermersa dal Caos primordiale, non trovando nulla di solido su cui posare i piedi, la Dea divise il cielo dal mare; era nuda ed aveva freddo e non avendo nulla con cui coprirsi, cominciò a muoversi danzando sui flutti e dirigendosi verso il Sud.

Un turbinio alle  spalle la costrinse  a voltarsi:  la sua frenetica  danza aveva attirato Borea, il Vento-del-Nord, che incalzava  alle sue spalle; la Dea,allora, lo afferrò e lo strofinò tra le mani e Borea si trasformò in Orione, il Serpente-cosmico.

Quella presenza ispirò immediatamente in lei il desiderio di procreare e così riprese a danzare in maniera sempre più leggiadra, sensuale e selvaggia, tanto da accendere in Ofione la fiamma del desiderio.

Il serpente l’avvolse nelle sue spire e si accoppiò con la Dea che rimase incinta.

Assunte le forme di una colomba, Eurinome si levò in volo e quando giunse l’ora giusta, depose l’Uovo-Cosmico ed ordinò ad Ofione di arrotolarsi per sette volte intorno ad esso, finché non si schiuse.   Il Creato prese forma: il Sole, la Luna, i Pianeti, le Stelle, la Terra con la Natura e le sue creature.

.Eurinome, il cui nome significa “Lunga Perenigrazione” ed Ofione si stabilirono sul Monte Olimpo, ma la coppia entrò ben presto in … crisi, a causa della millanteria di Ofione che si vantava di essere il Creatore dell’Universo.

La Dea si irritò molto  e gli fracassò i denti, poi lo  rinchiuse nel seno oscuro della terra:  venne  così, a crearsi  inimicizia tra la donna e il serpente, proprio come in biblica memoria.

Da quei denti, secondo il mito, nacquero i Pelasgi che presero il nome da Pelasgo, il primo uomo creato, il quale insegnò ai suoi simili l’arte dell’agricoltura e della pastorizia.
A questo punto  la Dea creò i Titani  e le Titanesse, a cui affidò la custodia delle Sette Forse Planetarie appena create.
Tia e Iperione furono i Signori del Sole,  Febe ed Atlante custodirono la Luna.  Marte fu affidato alle cure di Dione e Crio, Mercurio, invece, a quelle di Meti e Ceo.  Il pianeta Giove andò a Temi ed Eurimedonte, mentre Teti ed Oceano ebbero in cura Venere; Rea e Crono, infine, furono i Signori di Saturno.

In età classica, però, queste Forze furono assegnate a: Elio – Selene – Ares –  Ermete oppure Apollo – Zeus – Afrodite e Crono.

Ognuna di queste di Potenze Planetarie  presiedeva  ad una funzione della Natura: Il Sole fu associato alla Luce – la Luna agli Incantesimi – Marte alla Crescita – Mercurio alla Saggezza –  Giove alla Legge  – Venere all’Amore –  Saturno alla Pace.

Eurinome  non si fermò qui.  Dalla terra d’Arcadia, nel cuore del Peloponneso, fece emergere Pelasgo, il primo uomo vivente, subito seguito da altri uomini. A lui la Dea  insegnò l’arte della caccia, della raccolta di ghiande e  altri frutti e della concia delle pelli.

Successivamente, con il mito patriarcale di Urano e le sue nozze con la Dea-Universale e il  conseguente ruolo di  Padre-Progenitore da lui assunto, il potere dell Dea cominciò a conoscere il suo declino.  In epoche ancora successive, la Grande Dea Madre generò a Giove le tre Grazie: Carite, Pasitea e Cale, vista nel suo aspetto più mite, in contrapposizione alle tre Moire, che la vedevano nel suo aspetto più spietato.
Si era oltrepassato la  soglia del patriarcato.

 

 

 

 

 

ANTICA GRECIA – DEE e REGINE… PENELOPE

PENELOPE: fu davvero così casta?

PENELOPE: fu davvero così casta?

La figura di Penelope, casta e fedele, che aspetta trepidante il ritorno dello sposo vagabondo per il mondo con la scusa della guerra, che imbroglia i pretendenti con una tela interminabile, piace molto agli uomini.
Li rassicura.
Piace molto questa figura di donna in eterna attesa: è rassicurante. Viene presa come esempio anche in culture assai, ma proprio assai, posteriori.
Perfino oggi.
Ma era davvero così casta e fedele, la cara Penelope?
L’epoca in cui visse era quella di un Matriarcato in declino e un nascente Patriarcato. Lo testimoniano le vicende legate alle sue nozze con Odisseo, meglio conosciuto come Ulisse.
Questi conquistò la sua mano all’antica maniera matriarcale, vincendo, cioè, una gara di corsa.
(secondo altre versioni, di tiro con l’arco)
Penelope era figlia di Icario, re di Sparta, e della ninfa Peribea e, secondo le antiche usanze, era la sposa che accoglieva lo sposo nella sua casa e non il contrario. (Menelao era diventato Re di Sparta per averne sposato la principessa ereditaria, Elena).
Ulisse, invece, infranse le regole e si portò via la sposa contro la volontà del padre di lei.
Re Icario, infatti, li fece subito inseguire e Ulisse costrinse  Penelope a scegliere fra lui e suo padre.
Penelope scelse Odisseo: senza una parola si calò il velo nuziale sul volto e lo seguì ad Itaca, lasciando la casa paterna e la terra di Sparta.
La figura di Penelope, in realtà, non è solamente emblematica, ma anche un po’ enigmatica, per quello che fu in seguito il suo comportamento.
Omero (ma sarà stato proprio Omero a scrivere l’Odissea? Ormai sono in molti a nutrire dei dubbi) ci parla di lei in tono brillante, bucolico ed un po’ ingenuo. Ben diverso dal tono ruvido e tagliente che si riscontra nell’Iliade, la cui paternità di Omero è indiscutibilmente accettata.
Omero ci lascia con Penelope ed Ulisse riuniti dopo venti anni di separazione: dieci di guerra a Troia e dieci di peripezie attraverso il Mediterraneo.
Penelope, però, si rivela donna prudente e diffidente, oltre che paziente e fedele: prima di concedersi al marito, vuole certezze e per questo lo sottopone alla prova del talamo nuziale e della sua posizione nella loro casa. Dopo, lo premierà generandogli un altro figlio: Polipartide; il primo era Telemaco, poco più che ventenne al ritorno a casa del padre.
Penelope è anche una donna forte e di infinite risorse. Lo ha dimostrato tenendo a freno i suoi pretendenti con vari espedienti prima del ritorno di Ulisse e lo dimostrerà pure dopo la morte di questi.
Sia Ulisse che suo figlio Telemaco, infatti, subito dopo la strage dei Proci (i pretendenti) erano stati esiliati.
Ulisse partì per la Tesprozia, per espiare la sua colpa; qui, però, sposò la regina Callidice che gli diede un altro figlio, Polirete.
Telemaco, invece, raggiunse Cefallenia, poiché, secondo un oracolo, Ulisse sarebbe morto per mano di suo figlio.
Così fu!
L’eroe fu ucciso proprio da uno dei suoi figli, ma non era Telemaco, bensì Telegono, il figlio avuto dalla maga Circe durante il viaggio di ritorno da Troia.
Telegono, che dal padre aveva ereditato lo spirito d’avventura, andava scorrazzando per i mari e finì per raggiungere Itaca.
Ulisse si preparò a respingere l’attacco, ma Telegono lo uccise.
Proprio come aveva predetto l’oracolo: in riva al mare e con l’aculeo di una razza, un aculeo di razza infilato sulla punta della lancia di Telegono.
E ancora una volta Penelope ci sorprende: trascorso l’anno di lutto previsto dalla tradizione, la Regina di Itaca sposa Telegono… proprio così! Sposa l’uccisore di suo marito, figlio della rivale, la maga Circe.
E non è tutto. Raggiunta l’isola di Circe, madre del fratellastro Telegono, Telemaco, a sua volta, impalma la rivale di sua madre.
Edificante!

Maggiori informazioni http://storia-e-mito.webnode.it/products/penelope%3a-fu-davvero-cos%c3%ac-casta-/

ANTICA GRECIA – STORIA E MITO

La cruenta fine del Sostituto

ANTICA  GRECIA - La cruenta fine del Sostituto

Il termine sostituto indica oggi semplicemente una persona che svolge mansioni al posto di un’altra.

Nelle antiche culture, però, all’epoca del Matriarcato, il Sostituto era una figura assai tragica ed infelice.

Era al centro di una consuetudine davvero cruenta: così in Egitto come in Mesopotamia o Hattusa… Roma si salvò solo perché la sua storia è più recente.

In Grecia il Sostituto si chiamava Interrex ed era quasi sempre un ragazzo sui dieci anni, perché tanti erano gli anni di regno del Paredro.

Oggi diremmo: Principe Consorte.

Secondo i costumi dell’epoca la Regina si sceglieva, tra i giovani più forti e gagliardi, un Re-Sacro, il Paredro, per l’appunto, per procreare e regnare con lui fino a che questi avesse conservato forze e vigore. Dopo egli veniva ucciso e il suo sangue sparso sui campi per renderli fecondi.

Dieci anni. Tale era il tempo concesso ad un Paredro.

Questo fino a quando non arrivò qualcuno che si rifiutò di sottostare al sacrificio e pretese una vittima in sua “sostituzione”.

Quel qualcuno si chiamava Enapione e pare fosse uno dei nipoti del famoso Minosse.

Egli si rifiutò di morire, nonostante che il nuovo pretendente della Regina avesse, secondo le Leggi, superato le prove a cui era stato sottoposto e lo avesse vinto in regolare combattimento. (lotta libera, presumibilmente).

Enapione si nascose in una cripta facendosi credere morto, ma “resuscitò” opportunamente (con l’aiuto di sostenitori) e in sua vece  pretese il sacrificio di un fanciullo: l’ Interrex , ossia il Sostituto.

I Sostituti erano sempre fanciulli sui dieci anni, schiavi, prigionieri o ragazzi dotati e, non raramente, erano addirittura i figli dello stesso Re-Sacro in carica.

Questo potrebbe dar luce a qualche mito o casi di parricidio da parte di principi-eroi, che ci appaiono incomprensibile, ma di cui la storia della Grecia Arcaica e perfino Minoica e Micenea, abbonda.

 

L’Interrex veniva insediato sul trono con una cerimonia assai festosa. Regnava per un giorno, durante il quale gli era permessa ogni cosa, poi veniva drogato e ucciso.

Il Paredro tornava sul trono al fianco della Regina (il cui potere, però, cominciava a mostrare primi segni di debolezza)… fino a quando un nuovo pretendente, più forte e vigoroso, non fosse riuscito a toglierlo di mezzo.

Non si sa per quanto tempo tale cruente costume abbia continuato a  mietere fanciulli. Ad un certo momento della storia, però, il sacrificio dei fanciulli verrà sostituito da quello di un animale: capro o toro.

O, come accadde in Egitto, da una cerimonia detta Zed o Giubileo: un rituale magico attraverso cui il Sovrano ritrovava energia e vigore.

 

A proposito di Giubileo, la regina Elisabetta II d’Inghilterra ha celebrato da poco il suo e il Papa ha fatto lo stesso celebrando il proprio.

 

Il Paredro… ossia, il Principe-Consorte della Regina

Il Paredro... ossia, il Principe-Consorte della Regina

Il Paredro della Regina… ossia il Principe Consorte.
L’epoca  era quella matriarcale e il potere era nelle mani della Ninfa-tribale o, come si dirà più tardi, Regina. La successione al trono avveniva, dunque, per via femminile e matrilineare e il trono apparteneva alla figlia della Regina-Madre.
Per giungerere ad occupare  quel trono le vie erano due:  diritto di successione della più giovane delle figlie della Regina oppure disputa di una gara di corsa fra le ragazze più giovani e nobili.
Non esisteva un vero Re, poiché la Regina non aveva un vero  sposo, ma solo amanti che si sceglieva fra le più bella e forte gioventù.  Questi diventava  Re-Sacro o Paredro, in quanto “marito” della Regina ma era destinato ad una morte rituale dopo un periodo di regno di 13 mesi, affinché il suo sangue fecondasse la terra.
Il sacrificio annuale del Re-Sacro si consumava nel giorno che seguiva il giorno più corto dell’anno terrestre (e non dell’anno lunare) e le modalità erano varie nelle diverse località. In Tracia, ad esempio, veniva fatto a pezzi da  donne invasate e drogate; a Corinto era fatto sbalzare dal suo cocchio, preventivamente  sabotato  e  moriva schiacciato dalle ruote e dagli zoccoli dei cavalli;  in Tessaglia, invece,  era fatto precipitare giù da una rupe.  E ancora: gli si scagliava contro, all’altezza del tallone, una freccia avvelenata oppure lo si finiva a colpi di ascia.
Con le invasioni elleniche, qualcosa cominciò a cambiare nella società matriarcale locale, ma, con quelle, spietate e dure, che le seguirono, doriche ed achee, i costumi locali  mutarono e si indebolirono radicalmente.
Dori ed Achei,  pastori-guerrieri, giunti con Divinità maschili come Mitra e Varuna, vi  trovarono Divinità femminili come Era ed Atena. Vi trovarono anche Regine, a capo della società, Sacerdotesse della Dea-Luna,  mentre essi avevano per capi Re, adoratori di Zeus ed Apollo, che identificarono presto  con le loro divinità.
Col tempo il Re-Sacro cominciò ad acquisire sempre maggiori poteri, giungendo perfino a sostituire la Regina in cerimonie rituali ed in alcune sue funzioni; in quelle occasioni indossava le vesti della Regina e i suoi ornamenti ed impugnava la “Falce Sacra” a forma di mezzaluna, simbolo della Dea-Luna.
Si spiegano così gli antichi bassorilievi che ritraggono il Re in abiti femminili.
Aumentando di prestigio e potere, il Re-Sacro si vide riconosciuto un periodo di regno superiore a 13 lune e precisamente un periodo di 100 lunazioni, pari a otto anni, alla fine dei quali, l’anno solare coincideva con l’anno lunare. Giunta quella data, però, il Re-Sacro doveva essere sacrificato.  Qualcun altro,   però, alla fine di ognuno degli otto anni all’interno delle 100 lunazioni,  prendeva il suo posto  nel sacrificio rituale: l’INTERREX, ossia il Sostituto. Di solito era un fanciullo nobile o addirittura figlio dello stesso Re; in seguito fu sostituito da un schiavo od ostaggio e infine da un animale, di preferenza un capretto.
Al tramonto del giorno  in cui si celebrava il sacrificio, il Vecchio-Re fingeva di morire e si faceva interrare in un’urna e l’Interrex prendeva il suo posto. Per un giorno intero, questi ne assumeva tutte le cariche, giungendo prerfino  sposare la Regina. Al tramonto del giorno successivo, però, egli veniva ucciso e il Vecchio-Re “sorgeva” dalla tomba, saliva sul cocchio accanto alla Regina e iniziava un nuovo regno di un anno accanto a lei, fino all’anno seguente in cui si ripeteva il rituale. Il cocchio dell’infelice fanciullo veniva distrutto e fatto a pezzi.

Spesso leggiamo di miti che parlano di amori tra Dei e Ninfe; molto probabilmente si tratta di riferimenti a matrimoni tra i principi conquistatori e le principesse o regine locali.
Era iniziato il Patriarcato e verso questi matrimoni dev’esserci stata ferrea opposizione da parte delle vecchie Regine; le principesse ereditarie, però, si mostrarono più benevoli verso i nuovi arrivati e li accettarono come “Figli della Dea-Luna”,    prendendoli come Paredri o Re-Sacri.
Questi nuovi Re-Sacri, però, non  erano  per nulla disposti a sacrificarsi e si mostrarono assai restii a sottomettersi alla propria sorte. Si ritiene che a rifiutarsi di morire sia stato per primo Enopione, re di Iria, che  per otto anni si fece sostituire da un sostituto  e alla fine uccise il suo successore, evitando la morte.
La vittoria e la conquista da parte del popolo Acheo pose termine a questa barbiaria: la Doppia Ascia Sacra della Dea-Luna  Artemide e della Dea-Terra Rea, divenne la Folgore-Sacra di Giove e di Poseidone che, successivamente si trasformò nel Tridente-Sacro, nelle mani  del Dio del Mare.

Astianatte… il mistero della sua morte

Astianatte... il mistero della sua morte

Omero ci consegna il piccolo Astianatte, principe di Troia, figlio di Ettore e Andromaca, scaravantato giù dalle mura della città da un freddo e spietato Odisseo, il quale aveva appena dichiarato che Priamo, re di Troia, non avrebbe più dovuto avere discendenza.
In verità, gli Achei tutti non erano propensi a quel misfatto, anche se l’indovito Calcante li metteva in guardia da una probabile futura vendetta del figlio di Ettore se fosse vissuto.
Qualcun altro, però, oltre Odisseo, mostrò di non nutrire scrupoli nel commettere infanticidio: Neottolemo, figlio di Achille, cui era toccata in sorte proprio Andromaca, vedova di Ettore e madre di  Astianatte.
Esistono, però, altre versioni dell’episodio. Secondo una di queste, a  scaraventare   giù, sulle rocce sottostanti, tenendolo per una caviglia,  pare sia stato proprio Neottolemo,  a cui, probabilmente, dava fastidio la presenza di quel moccioso nel rapporto con sua madre.
Strana sorte! Padre e figlio che trovano la morte per mano di padre e figlio: Ettore,  ucciso da Achille, padre di Astianatte, ucciso da Neottolemo.
Su  questa morte, in verità, fin dall’antichità sono sorte varie discussioni. Alcuni antichi storici hanno formulato l’ipotesi che il figlio di Ettore sia sopravvissuto alla distruzione della sua città e che alla partenza degli Achei, si sia ripreso il trono e la città, che Antenore aveva fondato sulle ò la spada perrovine di quella vecchia, aiutato nell’impresa da Enea… ma questa è un’altra vicenda.

Le Fanciulle di Locri

Le Fanciulle di Locri

Pittori, poeti e scrittori si sono lasciati ispirare per secoli dall’episodio della violenza di Aiace  d’Ileo su Cassandra, principessa di Troia.
Per scampare al massacro che gli Achei, caduta la città, stavano consumando sui vinti, Cassandra, figlia di Priamo, si rifugiò nel Tempio di Atena. Qui, però, la raggiunse Aiace  che, in spregio di quel luogo sacro, le usò violenza proprio ai piedi della statua della Dea.
Atena ne fu tanto disgustata, da distogliere lo sguardo dalla scena. La sua ira, però, non si fermò allo stupratore, ma si estese a tutto l’esercito Acheo e inutilmente Aiace si proclamò pentito e pronto ad espiare la propria colpa: gli stessi compagni volevano la sua morte ed  Odisseo propose addirittura la lapidazione.
Aiace fuggì, ma la sua nave naufragò; egli riuscì ad aggrapparsi ad uno scoglio, ma Atena  ottenne da Giove una saetta che gli scagliò contro uccidendolo.
Non ancora soddisfatta, l’implacabile Dea rivolse la sua collera contro i sudditi dell’eroe, nella terra di Locri.
Un oracolo avvertì che per placare la Dea bisognava, ogni anno e per duecento anni, inviare a Troia nel Tempio di Atena,  due fanciulle di nobile famiglia etratte a sorte, sbarcandole sul promontorio Reteo.
I troiani, però, consideravano quest’atto una violazione da punire con la morte, se, però,le ragazze riuscivano a raggiungere il Tempio, potevano restarvi in condizioni di  schiavitù,  fino a quando non venivano sostituite, l’anno dopo, da altre fanciulle.
Per sfuggire alla morte, le fanciulle venivano  introdotte di nascosto attraverso un  passaggio segreto  che conduceva direttamente al Santuario.
Per rendere più sicuro lo scambio delle coppie, nessuno,  all’infuori     delle famiglie delle fanciulle stesse, conosceva quel passaggio dall’ingresso abilmente occultato e nessuno  era al corrente del momento, sempre di notte, in cui doveva avvenire lo scambio, né   dell’ora precisa.
Nota:  il caso delle sacerdotesse di Locri è storicamente provato, ma gli storici sono tutti concordi nell’affermare che ad impedirne l’accesso al Tempio non fosse l’episodio della violenza di Aiace d’Ileo, una chiara invenzione di Omero, bensì dell’acredine esistente  tra Troia e Locri.
Le ragazze di Locri, dunque, esercitavano un diritto che i troiani non volevano riconoscere loro.

 

Fillide e Acamante

Fillide e Acamante

Come sempre i miti hanno più di una versione e questo, raccontato qui, non sfugge alla regola. Qui è stata scelta quella più romantica, benché triste e amara.

Acamante, uno dei guerrieri Achei di ritorno da Troia, durante il viaggio si ferma in Tracia.
Qui conosce la bellissima Fillide, figlia del Re e se ne innamora, ricambiato appassionatamente.
I due si sposano, ma la nostalgia della terra lontana afferra ben presto il guerriero che fa un patto con la sposa: si recherà ad Atene, ma sarà di ritorno un anno dopo.
Prima della partenza, Fillide gli consegna un misterioso scrigno raccomandandogli di aprirlo solo nel caso si trovasse nell’impossibilità di tornare da lei.
Acamante parte, ma, spinto da spirito di avventura, si ferma a Cipro, dove finisce per restare… forse al fianco di un’altra principessa.
Fillide si reca ogni giorno sulla spiaggia a guardare il mare, nella speranza di vedere una vela spuntare all’orizzonte, infine, trascorso il tempo stabilito e non vedendo tornare l’amato, decide di porre fine alla sua vita.
Impietosita, la dea Atena trasforma il suo corpo in un mandorlo.
Acamante arriva il giorno dopo e non può fare altro che abbracciare il tronco nudo dell’albero.
Ecco, però, che sotto le sue carezze, il mandorlo si copre di fiori e non di foglie… come accade ancora oggi!
A questo punto, Acamante decide di aprire lo scrigno, ma resta sconvolto da quello che è custodito al suo interno, ossia, i segreti della Madre-Terra.
Atterrito da quella visione, il giovane fugge, ma inciampa nella propria spada e si trafigge a morte.

 

Alcmeone, Arsinoe e Coreso – L’Eterno Triangolo

Alcmeone, Arsinoe e Coreso - L'Eterno Triangolo

Alcmeone era un giovane guerriero perseguitato dalle Furie per essersi macchiato di matricidio.
Non che Erifile, così si chiamava la madre, fosse uno stinco di santo. Al contrario. Per entrare in possesso di una Collana e di un Velo appartenuti a Venere, la donna aveva causato la morte del marito, Anfiorao e per poco anche quella dello stesso Alcmeone.
Il giovane andò peregrinando per il mondo scacciato da tutti fino a quando non giunse in Arcadia dove Tegeo, il Re, non lo purificò della colpa. Non solo: gli dette anche sua figlia Arsinoe in moglie.
A lei, Alcmeone fece dono della Collana e del Manto di Venere che aveva portato con sé.
Nonostante la purificazione, però, le Furie continuarono a perseguitarlo e il giovane dovette ripartire.
Raggiunse un’isola alla foce del fiume Archeolao e qui formò una nuova famiglia con la bellissima e vanitosissima Calliroe, di cui si’innamorò così profondamente da dimenticare Arsinoe.
Quando Calliroe gli chiese di riprendere Collana e Manto di Venere donati all’altra moglie, Alcmeone non ebbe esitazione.  Tornò in Arcadia e raccontando un sacco di frottole alla ingenua Arsinoe ed a suo padre, si fece restituire i gioielli.
Ripartì subito, assicurando la donna che sarebbe ritornato appena deposti i gioielli sull’altare di Apollo.
Ma un servo svelò l’inganno e i fratelli di Arsinoe inseguirono il fedifrago e lo uccisero, poi tornarono dalla sorella e poiché questa si arrabbi e non voleva sentir ragione, pensarono bene di metterla a tacere per sempre.
Ma non finisce qui…
Calliroe, venuta a conoscenza della morte del marito, incarica i due figlioletti (cresciuti nel giro di una notte per intercessione di Giove) di vendicare il padre e portarle i gioielli maledetti.
I due pargoli partirono subito, raggiunsero l’Arcadia ed uccisero il padre e i fratelli di Arsinoe.
A questo punto, però, la maledizione e la persecuzione delle Furie si spostò su di loro e cessò soltanto quando i gioielli maledetti furono depositati sull’altare del Tempio di Apollo.

Antigone ed Emone – Il sopruso e la tirannia

Antigone ed Emone - Il sopruso e la tirannia

Antigone ed Emone, rispettivamente figli di Edipo e Creonte, erano profondamente innamorati e legati da una promessa matrimoniale.
Creonte, zio di Antigone oltre che spasimante respinto, era riuscito a mettere le mani sul trono di Tebe dopo che i legittimi eredi, Eteocle e Polinice, fratelli di Antigone, si erano affrontati in un duello mortale per entrambi.
Spinto dalla propria natura empia e malvagia, il Tiranno aveva ordinato di non dare sepoltura ai corpi dei due caduti.
Contravvenendo a quell’ordine, però, Antigone innalzò una pira e vi adagiò sopra il corpo di Polinice, cui la principessa era legata da profondo affetto.
Dall’alto di una terrazza, Creonte vide il bagliore delle fiamme del rogo e si precipitò sul posto, sorprendendo Antigone.
In preda alla collera per essere stato disubbidito e cogliendo in quella, l’occasione per potersi vendicare del rifiuto di Antigone, Creonte ordinò al figlio, il principe Emone, di seppellire viva la ragazza nella tomba di Polidice.
Emone finse di ubbidire. In realtà sposò l’amata e la mise in salvo affidandola ad un gruppo di pastori, tra i monti.
Antigone ebbe un figlio che, come tutti nella sua famiglia, portava impresso sul corpo il segno del serpente. Quando, molti anni dopo, ormai cresciuto, il ragazzo si presentò ad una gara con l’arco, Creonte lo riconobbe dal segno, lo catturò e lo fece mettere a morte.
Invano Emone tentò di salvare il figlio; alla fine uccise se stesso e l’infelice Antigone.

(questo personaggio ha dato materia a molte delle Tragedie Greche)

 

Procri e Cefalo – Il dramma della gelosia

Procri e Cefalo - Il dramma della gelosia

Procri, figlia del Re di Atene e Cefalo, Re di Cefalonia, valenti cacciatori, erano profondamente innamorati, ma tormentati dai rispettivi sentimenti di gelosia.
Si erano scambiati promessa di eterno amore ed eterna fedeltà, ma ad insidiare la promessa, arrivò Eos, la rosea Aurora.
Il giovane respinse le profferte amorose della Dea, ma questa insinuò in lui il dubbio sulla fedeltà della bella sposa.
“Al contrario di te, – gli disse – la tua bella Procri non sarebbe capace di resistere alla tentazione in cambio di un ricco dono.”
Stretto nelle maglie della propria gelosia, il giovane decise di mettere alla prova la bella sposina. Si trasformò in un’altra persona e con la promessa del dono di una preziosa corona d’oro, riuscì a sedurla.
Amareggiato e deluso, rivelò alla bella e fedifraga sposa la sua vera identità poi l’abbandonò, accettando le offerte d’amore della Dea.
Pentita, ma anche umiliata, Procri lasciò Cefalonia per raggiungere Creta dove re Minosse, invaghitosi di lei, le fece dono di una freccia infallibile e di un cane che non mancava mai la presa.
Minacciata da Pasifae, però, moglie di Minosse, Procri si dovette cercare un nuovo rifugio; travestita da ragazzo, tornò ad Atene dove assunse una nuova identità e diventò per tutti Pterelao il Cacciatore.
Ma il Destino volle fare nuovamente incontrare i due innamorati che si ritrovarono fianco a fianco durante una battuta di caccia.
Cefalo non la riconobbe, ma quando Procri gli si rivelò, i due finirono per riconciliarsi e tornare insieme.
Procri, però, continuava ad essere tormentata dalla gelosia ed era convinta che quando Cefalo andava a caccia, ogni mattino prima dell’alba, era per incontrarsi con Eos.
Una notte volle seguirlo e Cefalo sentendo un fruscio tra i cespugli, scagliò l’infallibile freccia che non mancò di cogliere il bersaglio.
Tormentato dal rimorso e dal dolore, il giovane, inconsolabilmente innamorato, si gettò dall’alto di una rupe invocando il nome dell’amata.

 

Calliroe e Coreso – La prova d’amore

Calliroe e Coreso  - La prova d'amore

 

Coreso, sacerdote di Bacco, era stato preso da travolgente passione per Callireo, una bellissima ragazza di Caledone. Costei, invece, non sentiva nessun trasporto per l’ardente innamorato.
Fu così che Coreso finì per chiedere l’intervento di Bacco, affinché lo vendicasse di tanta indifferenza.
Quel gaudente di Bacco si prestò al gioco senza alcun indugio e lo fece nel modo a lui più congeniale: facendo prendere una bella sbronza a tutto il Paese. Una sbronza così forte da togliere il bene dell’intelletto a tutti i Caledonesi.
Per recuperarlo, spiegò l’Oracolo, bastava sacrificare a Bacco l’insensibile fanciulla in questione oppure una persona che fosse disposta a morire al suo posto.
Calliroe era bellissima e non c’era giovanotto che non spasimasse per lei ed a tutti loro, lei chiese la grande “prova” d’amore. Nessuno, però, si fece avanti disposto a sacrificarsi.
Fu così che la bella Calliroe, agghindata di tutto punto, fiori, foglie e gioielli, fu condotta all’altare sacrificale, ma…. ecco il colpo di scena.
Coreso, il Gran Sacerdote di Bacco, innamorato respinto, già pronto ai piedi dell’altare con il coltello sacrificale in mano, invece di conficcarlo nel petto della ragazza, ormai rassegnata alla morte, lo volse contro di sé.
Toccata da tanta “prova” d’amore, Calliroe sentì di colpo infiammarsi il cuore per quel giovane più volte respinto e si trafisse il petto con lo stesso coltello.
Impietositi, gli Dei trasformarono i due in una sola fonte: la Fonte di Atene, alla foce dell’Ilisso, fiume dell’Attica.

 

 

 

ANTICA GRECIA – DEE e REGINE… TEANO

TEANO… Regina di Icario

TEANO... Regina di Icario

Metaponto, Re di Icaria, desiderava ardentemente un figlio che, però, la moglie, Teano, non poteva dargli, perché sterile.

Metaponto decise allora di consultare un oracolo, ma prima della partenza, avvertì la moglie che se questo figlio non fosse arrivato entro un anno, l’avrebbe ripudiata.
La regina Teano, però, non si perse d’animo e si confidò con il fedelissimo amico mandriano, il quale le portò, di nascosto, due gemelli che aveva trovato esposti sui monti.
Al marito, di ritorno dall’oracolo, fece credere che fossero suoi e Metaponto, tutto felice e contento, considerandoli un dono del cielo, li accetto ed allevò amorevolmente.
Ma chi erano quei due gemelli che, crescendo, diventavano sempre più belli, fieri e coraggiosi? Sì da essere l’orgoglio di re Metaponto’
Erano nientemeno che i figli della sventurata Arne, che Poseidone aveva sedotto e messa incinta.
Questa Arne era figlia della profettessa Tea e di Eolo, Re dei venti, adottata da un certo Desmonte, segretamente innamorata di lei. Quando, però, questi si accorse che  la ragazza era incinta, in preda a cocente  gelosia, l’accecò e la rinchiuse in una tomba vuota dove la lasciò languire, nutrendola solo con pane e acqua.
Alla nascita dei due gemelli, Desmonte chiamò un servo e gli ordinò di esporli sui monti.
L’uomo che li trovò e li salvò da morte certa, era  il mandriano della regina Teano.
I due gemelli, cui furono imposti  i  nomi di Eolo e Beoto, crebbero nella reggia di re Metaponto, come principi di sangue.
Qualche tempo dopo, però, la regina Teano, che non era affatto sterile, dette al marito una seconda coppia di gemelli.
I primi, però, di origine divina, erano assai più belli e prestanti dei fratelli minori e Metaponto li preferiva senz’altro agli altri due, suscitando l’ira e la gelosia della Regina, il cui pensiero costante divenne quello di  disfarsi dei due intrusi.
L’occasione la fornì ancora una volta l’assenza di Metaponto, partito per  recarsi al Santuario di Artemide.
Durante la sua assenza, la regina Teano studiò in ogni particolare  un agguato in cui spingere i due divini gemelli. Organizzò una partita di caccia durante la quale i figli avrebbero dovuto provocare la morte dei fratelli maggiori, simulando un incidente.
Poseidone, però, impedì che ciò accadesse e venne in soccorso dei figli che, scoperto l’inganno dei fratelli minori, ingaggiarono con loro una lotta senza quartiere che si concluse con la morte di questo ultimi.
Con rammarico profondo, i due divini gemelli portarono a Teano i corpi senza vita dei due figli e la Regina alla loro vista, si trafisse con un pugnale.
Per sfuggire ad un eventuale vendetta, i due ragazzi si rifugiarono dal mandriano, dove furono raggiunti da Poseidone  che rivelò loro la verità sulla loro nascita. I due fratelli appresero anche della madre che languiva in una tomba e si precipitarono a liberarla,  uccidendo Desmonte, il suo crudele carceriere.

 

ANTICA GRECIA – I GENI della MORTE

LE GRAIE

LE  GRAIE

Sicuramente meno fastidiose ed invadenti delle cugine Arpie,   Divinità investite di funzioni funerarie, ma non molto più gradevoli, erano le Graie.
Capelli grigi (da cui il nome), ma candide come cigni, di cui amavano talvolta  assumere le sembianze, le Graie, figlie della ninfa  Ceto e del Genio marino Forcio, erano anch’esse  Geni dell Morte.
Erano tre e i loro nomi erano Enio o La-Guerresca, Dino o La-Terribile e Pafredo o La-Vespa
Il loro animale sacro era il cigno, che nella mitologia europea, dal Nord al Sud, è sempre stato considerato l’Uccello-della-Morte.
Il colore del piumaggio di questo splendido animale, infatti, è bianco e il bianco, nelle antiche culture, è sempre stato il colore del lutto (anche presso gli Egizi i quali non si trovavano certo in zona nordica)
Lo è anche per la forma a  “V” che lo stormo prende quando si alza in volo per la migrazione della mezza estate, essendo il segno V, considerato simbolo femminile (si tenga presente che siamo in epoca patriarcale, anche se il patriarcato avanza a lunghi passi).
I cigni emigravano a mezza stagione, epoca in cui si compiva il sacrificio del Re-Sacro o Paredro (oggi lo chiameremmo  principe-consorte) e si pensava che portassero via sulle loro ali l’anima del Re defunto.Il mito secondo il quale le tre Divinità avessero un sol dente ed un sol occhio è nato molto più tardi e cioè in età classica avanzata.
L’unico riferimento a ciò, lo troviamo soltanto riguardo le imprese di Perseo, come racconto di tempi antichi.

Secondo questo mito, Perseo nella sua impresa per uccidere la Medusa, una delle tre Gorgoni, fu aiutato dallr Graie. Le sorprese, si dice,  mentre riposavano sui loro troni sul monte Atlante e portò via il loro unico dente e l’unico occhio, costringendole a rivelargli il luogo dove vivevno le Ninfe Stigie.
All’eroe era vitale avere questa informazione poiché queste ultime lo avrebbero fornito dei tre strumenti necessari a condurre a buon fine la sua impresa e cioè: i sandali per muoversi volando, la sacca in cui riporre la test della Medusa e l’elmo che rendeva invisibili.
Si trattava, in realtà, di un mito partorito successivamente da una fertile mente.
Secondo il mito originale, le tre Graie non si lasciarono affatto portar via il dente da Perseo, ma ne donarono uno ad Ermete per le sue proprietà divinatorie.
Ermete ricevette dalle Graie anche un Occhio Magico e il mito ci dice che questo eclettico Dio ne farà davvero buon uso: se ne servirà per dare un suono ai segni delle vocali ed delle consonanti inventate dalle Moire, cui i Greci attribuivano l’invenzione della Scrittura (come si vedrà)
Le Graie per le loro capacità divinatorie erano dette anche Forcipi o Profetiche: dal padre, Forci,  detto anche Genio-Profetico o Porcaro.
Nessun stupore!  Nei miti d’ epoca più arcaica i Porcari  esercitavano anche la veggenza ed erano conosciuti  anche con il nome Dios , “simile a Dio”.
Fu, infatti, con questo appellativo che Ulise si rivolse ad Eumeo, il porcaro dell’isola di Itaca.
Questo avveniva in età di tardo matriarcato ed inizio patriarcato; in età classica, invece, tale attività profetica era del tutto cessata.

 

Le Moire o Parche

Le  Moire  o  Parcheare

Erano le Signore del Fato, arbitri dei destini umani: vita e morte.

Nacquero dall’unione fra Notte ed Erebo (Inferno).
Insieme a loro nacquero anche: Vecchia, Morte, Sonno, Discordia, Miseria;  ma aprirono gli occhi alla luce anche: Gioia, Amicizia, Nemesi (Memoria), Pietà e le Ninfe Esperidi, le Custodi della pianta del Pomo d’Oro, dono di nozze di Gea (Terra) ad Era (Giunone).

Cloto, Lachesi e Atropo, i nomi delle tre Dee e quest’ultima, delle tre, era la più implacabile
Vestite di bianco, perché il bianco è il colore del lutto e della morte, reggevano in mano il “filo della vita” di ogni creatura. A filare quel “filo” con il fuso era Cloto, a misurarne la lunghezza, facendolo scorrere tra le dita, era, invecem Lachesi. Atropo, infine, lo recidevs con le sue Forbici Sacre quando ritneva fosse giunto il momento giusto.
In onore di queste implacabili Divinità furono eretti altari esposti ad intemperie e circondati da boschi di querce; durante i riti si offrivano loro acqua, miele e fiori e ci si presentava alle cerimonie con il capo inghirlndato di fiori e foglie

Un mito più recente le vuole, invece, figlie di Giove e della ninfa Temi; sempre secondo questo  mito, era Giove a mettere nelle loro mani il filo della vita di mortali e semidei ed era lo stesso Giove che poteva decidere quando fosse il momento di reciderlo.

Quando non filavano o spezzavano “fili”, le Moire non se ne stavano certamente in ozio.
Essendo le Signore del Fato, erano loro ad assegnare a tutti, mortali ed immortali, destini e compiti.
A Venere, ad esempio, avevano assegnato il solo compito di amoreggiare, a Marte di guerreggiare, ecc…
Un giorno Atena sorprese la Dea dell’Amore davanti ad un telaio e non mancò di rimproverarla aspramente, accusandola di volerle togliere una della sue prerogative.
Venere si scusò immediatamente, lasciò il telaio e da quel giorno non si occupò d’altro che di amori e corteggiamenti, senza mai fare qualcosa che assomigliasse vagamente ad un lavoro.

Alle Graie, secondo i Greci, va anche il merito di aver inventato l’alfabeto: le vocali, in realtà, più le consonanti B e T;  altre undici consonanti furono inventate da un certo Palimede.
Ermete, infine, riprodusse i suoni corrispondenti a quei segni.
Si aiutò, si dice, con due preziosi doni ricevuti dalle Graie: l’Occhio-Magico e il Dente dalle proprietà divinatorie.
Pare, inoltre, che queste eclettiche Divinità possedessero una voce straordinariamente melodiosa e che fossero sempre pronte a rallegrare banchetti e festini divini con la loro presenza e il loro canto.

Troviamo  spesso le Moire all’interno di miti riguardanti altri personaggi. Ne proponiamo un paio: il gigante Tifone e l’argonauta Admeto.
–   ADMETO

Particolari e per molti aspetti patetiche le vicende che vedono protagonista questo eroe.

Re di Fere, in Tracia, Admeto era molto caro al dio Apollo che per un intero anno aveva prestato servizio presso di lui quale mandriano delle sue greggi,

Un Dio al servizio di un mortale? Doveva averla combinata proprio grossa, il bell’Apollo, per meritare quella pena. Ed infatti, il Dio della Cetra aveva ucciso nientemeno che i Ciclopi, la Guardia personale del Sommo Giove. In verità, lo aveva fatto per vendicare la morte di suo figlio Esclapio, ucciso da una folgore scagliata contro di lui da Giove per aver restituito la vita ad un mortale.

Con l’aiuto del suo divino protettore,Admeto si apprestava a convolare a giuste nozze con  Alcesti, la bellissima e generosissima figlia di re Pelia. Tra i moltissimi preendenti, infatti, Admeto, forte e coraggioso, era stato il solo a riuscire ad aggiogare al cocchio di re Pelia un leone ed un cinghiale selvatico. In verità, a domare le due belve era stato necessario l’intervento del grande Eracle, di passaggio pe quelle contrade.
Disgrazia volle che Admeto si dimenticasse di offrire, per l’occasione, sacrifici ad Atena.
Si sa quanto gli antichi Dei greci fossero astiosi e vendicativi. La Dea, infatti, offesa da tanto affronto, riempì la camera nuziale di velenosi serpenti che  causarono la morte dello sposo.
Prima che la sua anima si mettesse in viaggio per L’Ade, ancora una volta Apollo intervenne in suo soccorso, raggirando le Moire e facendole ubriacare e riuscendo a convincerle a prolungargli la vita per qualche tempo ancora.
Queste acconsentirono , ma ad una condizione: che qualcun altro prendesse il suo posto.
Per primi, Admeto scongiurò i propri genitori:
“Mi avete dato la vita. –  implorò, gettandosi ai loro piedi –  Se adesso uno di voi due non scende nell’Ade a prendere il mio posto, è come se questa vita ve la riprenseste indietro.”
Sia pure a malincuore, tanto il padre quanto la madre opposero un netto rifiuto
“Ogni creatura umana – risposero – deve sottostare al proprio Destino. Qualunque esso sia.”
Proprio mentre Admeto, ormai rassegnato, stava per intraprendere il suo ultimo viaggio, ecco presentarsi la bella
Alcesti con in mano una coppa di veleno, pronta a prendere il suo posto e sacrificare la sua vita per amore.
Admeto accettò quel sacrificio ed Alcesti bevve il eleno e rggiunse presto l’Ade.
Chi, invece si rifiutò di accettare quel grande sacrificio d’amor fu Proserpina, Regina degli Inferi che la rimandò subito indietro, retendendo che ’insensibile ed ingeneroso marito scendesse giù ad occupare il proprio posto.

–   TIFONE

Con il povero Tifone, il più grosso e spaventevole dei Giganti, le Moire si comportarono addirittura in modo ingannevole e subdolo.
Durante la rivolta dei Giganti contro l’Olimpo, le Moire si schierarono dalla parte di Zeus e lo aiutarono scagliando contro i ribelli proiettili di rame infuocati.
Nello scontro Tifone restò seriamente ferito e dolorante.
Fingendo di volerlo soccorrere, le diaboliche, candide  creature gli offrirono dei frutti misteriosi facendogli credere che gli avrebbero ridato forza e vigore.
Come si sa,le cose andarono diversamente.
Tifone affrontò Zeus convinto di una forza che in realtà non possedeva e alla fine si ritrovò piuttosto malconcio.
Zeus, uscito vincitore dal durissimo scontro, lo scaraventò sotto l’Etna che da quel giorno non ha più smesso di sputare fuoco.

 

ANTICAGRECIA – IL MITO della CREATURA MOSTRUOSA

CHIMERA

CHIMERA

 

Veramente mostruosa quest’altra creatura mitologica, figlia di Echidna e Tifone: testa di leone, corpo di capra e coda di serpente… e poiché il gusto per l’orrore era spiccato già a quei tempi quasi quanto ai nostri giorni, il mito la dotò anche di alito infuocato e pestilenziale.

Il mostro seminava terrore in territorio di Licia e Giobate, Re di quelle contrade, si vide costretto a chiedere aiuto ad un suo ospite: un certo Bellerofonte di Corinto.
“Il Re di Caorte, Stenobearnia, mio nemico, – gli disse – tiene in casa quel mostro come se si trattasse di un animale domestico.”

Ma perché mai il baldanzoso figlio di Poseidone si trovava ospite di Giobate?
Come spesso accade nei miti greci, le avventure e disavventure di un eroe si incrociano con quelle di altri eroi: Perseo, in questo caso, (alcuni affermano fosse, invece, Preto, re di Tirinto) e la di lui poco fedele consorte, Stenobea, che Omero chiama Antea.
Costretto a lasciare Corinto per aver provocato la morte del tiranno Bellero (da cui il nome), il nostro eroe cercò rifugio a Tirinto dove fu gentilmente accolto da Perseo e ancor più gentilmente… troppo gentilmente, dalla consorte, Stenobea, colpita dal fascino tenebroso dell’ospite di suo marito.
Fermamente respinta dall’eroe, la donna lo accusò di tentata violenza e Perseo, non potendo farsi giustizia da sé, essendo Bellerofonte suo ospite, lo spedì da Giobate con la preghiera di cercare la maniera di spedirlo il più velocemente e platealmene possibile all’Olimpo, da suo padre, Poseidone.
Una scappatoia c’era per salvare le apparenze e fare le cose per bene: affidare al giovane la gloriosa quanto disperata impresa di liberare la terra di Licia dalla mostruosa creatura che seminava terrore.

Bellerofonte non si fece ripetere l’invito e partì subito per l’impresa. Per prima cosa domò Pegaso, il cavallo alato, nato dal sangue della Medusa, la Gorgone uccisa da Perseo.
Domare Pegaso fu impresa relativamente facile.
Bellerofonte lo trovò che stava abbeverandosi ad una delle fonti che lo stesso Pegaso faceva sgorgare battendo il suolo con uno degli zoccoli, ma catturarlo non era così facile, non essendo ancora state inventate le briglie.
La dea Atena, però, gli venne in aiuto mostrandogli come confezionare delle briglie d’oro e con quelle Bellerofonte catturò Pegaso ed affrontò la Chimera.

Riuscire ad uccidere la Chimera, però, fu tutt’altra impresa.
Bellerofonte le piombò addosso in groppa a Pegaso e solo dopo ripetuti tentativi riuscì a colpirla con la sua lancia dalla punta di piombo che le conficcò in bocca. L’alito di fuoco della mostruosa creatura fece sciogliere il piombo che scivolò giù attraverso la gola causandole la morte.

LE ARPIE

LE ARPIE

E’ l’appellativo che diamo ancora oggi ad una donna dal molesto  carattere e dall’atteggiamento sgradevole. Molesto e sgradevole come la Morte.

Sì! Perché le Arpie, queste abominevoli creature, erano proprio la personificazione della  Morte.
Fin dalle origini furono considerate la personificazione di Ecate, la Dea della Morte, la quale viveva nell’isola di Eea, dove lavorava al telaio accompagnandosi con il suo canto lamentoso.

Per un po’ le Arpie risedettero nel Giardino delle Esperidi, in sembianze di nibbi, uccelli sacri, cui veniva offerto del cibo. In seguito furono messe in fuga dagli Argonauti su richiesta di re Fineo (come si vedrà) e relegate sull’isola di Strofadi, dove finì per imbattersi Enea in fuga da Troia (si vedrà).

Figlie di Taumante e della ninfa oceanina Elettra, le Arpie erano mostruose creature alate: testa e busto di donna, corpo di uccelli. Così come le Sirene. E non vivevano in acqua come queste, ma nel sottosuolo: grotte, caverne, anfratti.
Orride a vedersi, erano anche sgradevoli all’olfatto: il loro era l’odore della Morte, di cui, come si è già detto, erano la personificazione.
Personificazione anche dei venti della Tempesta,  funzione che evocavano anche nei nomi: Aello la-Tempestosa, Cileno
La-Oscura, Ocipite la Rapida-in-volo.
A queste prime tre se ne aggiunsero presto delle altre: Ocitoe, Alopo, Tiella…
Tra i compiti loro assegnati c’era quello di trasportare in volo nell’Erebo le anime dei morti di morte violenta e quello di acciuffare i colpevoli e consegnarli alle Erinni.
Tra i loro sollazzi, invece, quello di insozzare  tavole imbandite.
Entravano nelle case svolazzando, rubavano il cibo dalle tavole e insozzavano il resto per renderlo immangiabile.

Lo fecero con Enea, insozzandone più volte la tavola fino a quando l’eroe non perse la pazienza e non le mise in fuga con le armi.
Lo fecero con Fineo, Re-Indovino, accecato dgli Dei per i suoi oracoli troppo precisi e veritieri.
Fineo chiese agli Astronauti, di passaggio attraverso il suo Regno per raggiungere la Colchide e il Vello d’Oro, di liberarlo di quel tormento.
Gli Argonauti, tutti eroi di grande tempra, acconsentirono,   ma con la loro partenza, i guai di Fineo ritornarono.

Quello che gli accadde assomiglia davvero molto alla favola di Biancaneve.
Morta Cleopatra, la prima moglie, Fineo aveva impalmato in seconde nozze la bella ma perfida principessa Idea.
Per liberarsi del marito e dei tre figli che questi aveva avuto dalla prima moglie, questa donna diabolica non si fermò davanti a nulla per mettere in atto i suoi piani.
Per prima cosa accusò i tre giovani dei più gravi delitti riuscendo a farli gettare nelle prigioni di palazzo.
Non paga di ciò, tramò per sbarazzarsi del marito, cieco e vulnerabile,  tentando di farlo morire di fame.
Quasi ci riuscì!
Come?
Insozzando la tavola, ogni volta che Fineo vi si accostava per mangiare e facendogli credere che a farlo fossero state le Arpie, tornate a tormentarlo dopo la partenza degli Argonauti.
Fineo sarebbe sicuramente morto di fame se Zete e Calaide, i fratelli della prima moglie, non si fossero accorti dell’inganno.
I due fecero anche liberare i poveri nipoti dal carcere in cui languivano e la cattiva Regina fu punita come meritava.

 

Medusa

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Pegaso, il cavallo alato, inevitabilmente richiama un altro nome, quello della madre: Medusa, l’orrendo mostro.
Medusa, in realtà, era una fanciulla bellissima, la più bella delle sorelle Gorgoni:
– Steno, la Forte
– Curiale, la Spaziosa
– Medusa, la Dominatrice.
Delle tre sorelle, Medusa era la sola a non essere mortale, ma commise l’errore di accoppiarsi con Immortale,  nientemeno che con Poseidone e lo fece in un Tempio dedicato ad Atena.
Atena si risentì tanto a causa di quell’oltraggio, che per punirla la tramutò in un essere mostruoso: occhi di brace, enormi zanne al posto dei denti, in testa una selva di serpenti al posto dei capelli, gambe e braccia artigliate. Il suo aspetto era così orribile che, a guardarla negli occhi, si restava pietrificati dal terrore.

Polidette, re del Seride, nell’Egeo, affidò a Perseo, figlio di Danae e di Zeus, la rischiosa e quasi impossibile impresa di uccidere la mostruosa creatura.
Ad aiutare l’eroe, però, provvide la stessa dea Atena, con l’apporto di suo fratello, il dio Mercurio.
Le due Divinità fornirono l’eroe  di tutto quanto potesse aiutarlo nella disperata impresa.
Per affrontare Medusa senza restare pietrificato dal suo sguardo, Atena gli consegnò il suo scudo da usare come specchio attraverso cui guardarla, evitando il contatto diretto con il suo sguardo
La Dea gli fece dono anche di una sacca magica in cui riporre la testa del mostro, i cui poteri continuavano a sussistere anche dopo la morte.
Anche Mercurio fu generoso nei suoi doni: gli consegnò un ricurvo pugnale dalla magica proprietà di penetrare qualunque materiale. Gli mise ai piedi i suoi calzari per renderlo velocissimo negli spostamenti ed in testa un casco che rendeva invisibili chi lo indossava.

L’eroe si recò nella terra degli Iperborei, dove vivevano le GORGONI.
Le trovò che stavano dormendo e sorprese Medusa nel sonno, tagliandole di netto la testa con il magico pugnale.
Dal corpo della Medusa balzarono fuori i figli concepiti a Poseidone:  Pegaso, il cavallo alato e il guerriero Crisaore.
Prima di darsi alla fuga con la sacca contenente la tesa del mostro, Perseo si fermò a raccoglierne il sangue dalle magiche proprietà. Quello sgorgato dalla vena destra resuscitava i morti mentre quello della vena sinistra procurava la morte.
Il primo fu donato, fra gli altri, ad Esculapio, dio della Medicina; del secondo, invece, assai velenoso, Perseo ne fece dono ad Atena. La Dea tenne per sé anche la testa della mostruosa creatura che posa sopra il suo scudo per terrorizzare i nemici.

Mettersi in salvo, appena ucciso la Medusa, però, non fu facile per Perseo, inseguito da Pegaso, Crisaore e dalle altre due Gorgoni. L’elmo e i calzari di Mercurio, però, gli favorirono la fuga.

I miti greci erano sempre simbolici… Quale  significato nascondeva questo mito?
La Medusa, con il suo sguardo pietrificatore, rappresentava l’ammonimento all’uomo che voleva avvicinarsi troppo al Mistero Divino per volerlo scrutare o, addirittura, servirsene.
In tutte le Antiche Religioni, a volersi avvicinare troppo alle “Questioni Divine”, c’era il rischio di restarne sopraffatti. Sempre nelle antiche credenze delle varie Religioni, eroi come Gilghemesh, Adamo e altri, furono puniti per essersi avvicinati troppo ai Misteri-divini.

Nell’antichità, i fornai greci usavano dipingere una testa di Medusa sui loro forni per impedire che qualcuno aprisse lo sportello e danneggiasse la cottura del pane.
Ancora nell’Antichità, durante i riti pagani in onore della dea Luna, le sue sacerdotesse si coprivano il volto con orrende maschere allo scopo di tenere lontano i curiosi.

 

Sfinge greca

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Al contrario della Sfinge egizia, la cui funzione era quella di proteggere, la Sfinge greca era una figura terrorizzante, inquietante e tragica. Come in molti dei miti greci. Lo fu la sua stessa nascita: il frutto di un rapporto incestuoso tra la bestiale Echidna e suo figlio Ortro, cane a due teste.
Chi o cosa potevano generare due mostruose creature, se non un altro mostro? Sfinge era un ibrido alato con testa di donna e corpo di leonessa.
Il mito narra che fu mandata a Tebe per vendicare la morte del bel Crisippo, ucciso da Laio, Re della città, che aveva approfittato sessualmente di lui, contro natura.
Il mostro si appostò sul Monte Ficione; secondo altre versioni, addirittura su una  colonna nel bel mezzo della piazza della città.
Il mostro chiedeva a tutti i passanti di sciogliere indovinelli… pena la morte.
L’enigma più ricorrente era:
“Chi è quell’animale che al mattino cammina a quattro zampe, a mezzogiorno su due ed a sera fa uso di tre?”
Per liberare la città da quel flagello, Laio stava recandosi a Delfi per chiedere responso al Tempio, quando si scontrò con un certo Edipo.
La strada era stretta e il Re gli chiese di farsi da parte.
Quell’Edipo, però, era un giovane dotato di arroganza più che di rispetto e, ignorando che l’uomo che gli stava di fronte era nientemeno che suo padre, non solo non gli dette la precedenza, ma passò alle mani… anzi, alla spada e fece fuori lui e il suo araldo… anche perché uno dei cavalli gli aveva pestato i piedi.( i piedi di Edipo, vedremo in altra sede, avevano un buon motivo per stare in scena in questo mito…).
Giunto a Tebe, il giovane affrontò la Sfinge e al suo indovinello rispose così:
“E’ l’uomo! Egli cammina a quattro zampe da bambino, su due piedi da adulto e si appoggia al bastone da vecchio.”
Sconfitta e sconvolta, la Sfinge si gettò dalla rupe (o dalla colonna), sfracellandosi.

 

I Centauri – la leggenda degli Uomini-cavallo

I Centauri  -  la leggenda degli Uomini-cavallo

Letteralmente il termine Centauro significa: “colui che trafigge il toro”, dall’etimo classico Kentauroi; un altro etimo suggerisce, invece: “gruppo armato di cento uomini”.
Qualunque sia il significato del termine, il mito li vuole d’aspetto davvero singolare: uomini fino all’ombelico e cavalli per il resto del corpo. Il mito li vuole anche rissosi, lussuriosi e sempre pronti a saltare addosso alla prima donna che capitava loro davanti.
Omero li chiama: “villose bestie selvagge”, per il loro aspetto e le attività orgiastiche ed erotiche.
La leggenda sulla loro origine farebbe arrossire gli autori di erotismo più audace. Vediamo perché.
Il capostipite fu un certo Issione, re dei Lapiti, tipo poco raccomandabile, per giunta  assassino.
Giove, re degli Dei, pur contro il parere degli altri Immortali, non solo non lo punì per il suo reato, ma lo invitò alla sua tavola.
A Issione piacevano molto le donne, proprio come a Giove; per questo, forse, non mancò di fare certe proposte addirittura a Giunone, sposa del suo divino ospite.
Giove scoprì presto le intenzioni del suo ingrato ospite e per metterlo alla prova dette ad una nuvola le sembianze di Giunone.
Annebbiato dal vino e dalla lussuria, Issione sfogò le sue brame sul simulacro di nuvola; dall’inconsueto rapporto nacque Centauro che, diventato adulto, dette sfogo alle sue insane tendenze sessuali e si accoppiò con le cavalle del Monte Pelio, che gli generarono i Centauri, creature metà uomini e metà cavalli.

Numerosi gli aneddoti   che li riguardano a causa proprio di questo loro temperamento.
Alle nozze di Piritoo, Re dei Lapiti, con Ippodamia, il centauro Eurizione, inebriato dalle troppe coppe di vino tracannato tentò di rapire la sposa  In soccorso della sposa accorsero  Piritoo e Teseo. Ne nacque una lotta violenta e senza quartiere tra Lapiti e Centauri e questi ultimi ne ucirono piuttosto malconci e corsero  al  galoppo in direzione del Monte Pindo, dove si rifugiarono.
Un altro  centauro commise lo stesso errore e finì ammazzato:  Nesso, che tentò di rapire Deianira, moglie nientemeno che di Ercole.
Il più noto fra tutti i Centauri fu certamente Chirone.
Questo il mito. La realtà, naturalmente, era un’altra.
I Centauri erano uomini barbuti e selvaggi, appartenenti a tribù delle montagne della Grecia orientale, i quali vivevano in tale simbiosi con i loro cavalli, da sembrare una sola cosa con il proprio animale.
Nacque così la leggenda degli Uomini-cavallo.

CHIRONE

Era il capo, piuttosto temuto e rispettato,  di questa razza di rissose e selvagge creature.  Pur avendone il medesimo aspetto, però, Chirone era di tutt’altra natura : saggio e sapiente, forte e gentile. Forse per  la nobiltà dei natali: Ghirone non faceva parte della stirpe di Issione,  ma era figlio di Giove e di  Filira, bellissima Ninfa mutata per gelosia in cavalla da Rea, la sposa di Saturno che di lei era follemente innamorato.
Anche il suo stile di vita era diverso da quello dei suoi simili. Egli viveva in una grotta del monte Pelio, diventata ben presto la Scuola d’Armi e di Sapere più famosa della Grecia. Molti degli Argonauti furono suoi allievi, pefino Esculapio.
Fra gli eroi che si formarono alla sua Scuola: Giasone, Enea, Diomede, Achille… tanto per citarne qualcuno.
A causargli la morte, ironia della sorte,  fu proprio uno dei suoi allievi, il suo  allievo  preferito: Achille.
Quando questi mosse guerra ai Centauri, Chirone  si schierò dalla loro parte per solidarietà.
Durante uno scontro durissimo fu ferito gravemente proprio da Achille e dolorosamente, poiché le frecce dell’eroe era intinte nel veleno dell’Idra di Lerna.  Proprio in quella circostanza ed a causa del dolore insopportabile, Ghirone, che il padre Giove aveva reso immortale, chiese di morire.
Giove lo accontentò, ma volle donargli almeno l’immortalità del nome e lo mutò nella Costellazione del Sagittario.

 

Il Minotauro?…. questioni di corna.

Il Minotauro?....  questioni di corna.

Conosciamo tutti la leggenda del Minotauro di Creta, ma, per chi l’avesse scordata, eccola, così come ci è stata tramandata dalla mitologia tradizionale.
Minosse, figlio di Giove, per legittimare il  suo diritto di successione al trono di Creta, chiese a Poseidone, Dio del Mare, una degna vittima da sacrificare durante la Cerimonia.
Dalle onde del mare, Poseidone fece emergere uno splendido toro bianco, così bello che Minosse volle tenerlo per sé e offrire in sacrificio, al suo posto, un toro comune.
Brutto affare, offendere la suscettibilità di una  Divinità: Poseidone, infatti, se la prese così tanto, che per vendicarsi dell’affronto, ne escogitò una davvero bella: scatenò in Pasifae, sposa di Minosse, (donna non propriamente fedele, come anche il marito, d’altronde), una passione contro natura per lo splendido animale.
Ah… questi popoli antichi!
Come fare per soddisfare l’insano desiderio?
Semplice! Ci pensò quel geniale di un architetto, ospite del Re, che allietava la corte con i suoi giocattoli meccanici.
Parlo del famoso Dedalo, noto a tutti.
L’ingegnoso artista trovò subito il sistema: costruì la sagoma di una mucca in cui fece sistemare quella pazza della Regina; la rivestì di pelle bovina e la fece porre in bella vista sul prato dove pascolava il bel Tauros. (questo il nome imposto allo splendido toro).
Quel che accadde, lo lasciamo all’immaginazione. Quello che accadde invece alla Regina dopo nove mesi, fu di mettere al mondo un bel bimbo con la testa di toro: il Minotauro, per l’appunto, a cui fu imposto il nome di Asterione.
L’increscioso fatto dispiacque così tanto a Minosse (cornificato già troppo spesso dalla moglie, ma mai prima con un toro) che impose a Dedalo di costruire un Labirinto in cui fece rinchiudere il Minotauro, la regina Pasifae e lo stesso Dedalo, che in seguito riuscì a fuggire, ma… quella è un’altra storia.
Il Minotauro era nutrito con carne umana, procurata dagli Ateniesi fino all’arrivo di un eroe di nome Teseo… ma anche questa è un’altra storia.


Interessante, invece, è sapere chi era davvero il Minotauro, tenendo presente che sul bacino Mediterraneo si affacciavano Popoli nella cui cultura era sempre presente il “culto del toro”: ricordiamo l’orientale Mitra, l’egiziano Hapy, ecc…
Già ai tempi di Plutarco, quella figura da “Sodomia”, era stata riscattata.
Il Minotauro, ossia Asterione, in realtà, era nato da una relazione tra la regina Pasifae e il bel Tauros, generale di re Minosse e atleta di tauromachia. (spettacolo con i tori)
Sempre di corna si trattava, ma non di corna animali!
Secondo questa più accettabile versione dei fatti, poco conosciuta perché non piccante come la prima e per questo meno capace di catturare quel “lato oscuro” che è sempre stato in ogni essere umano, Teseo combattè non con il mostruoso Minotauro, ma con suo padre Tauros e lo vinse in un regolare incontro.
Le leggende, soprattutto quelle nere e scabrose, sono lunghe a morire. Ecco perché oggi tutti conoscono il Minotauro, figlio di un toro, e ignorano Asterione, figlio di un atleta.

CREATURE FANTASTICHE e MITOLOGICHE – MUSE ed ERINNI

LE MUSE

LE  MUSE

INTRODUZIONE
Muse ed Erinni! Creature assai contrastanti e nel carattere e nell’aspetto: bellissime le prime ed orrende le seconde; le Muse apparentemente generose (sottolineo apparentemente) e le Erinni implacabili.
Eppure, hanno qualcosa in comune… o, forse, più di qualcosa, come si vedrà di seguito.

LE MUSE

 

“Dalle Muse e da Apollo Lungi-Saettante, – recita Esiodo – gli uomini sono sulla Terra cantori e citaristi, re da Dia. Felice colui che le Muse hanno caro: dolce a lui dalla bocca scorre la parola…”
Non meno enfatico si mostra Platone:
“… chi senza follia di Musa, al Palagio regale di Poesia s’avvicina, convinto di diventar poeta per forza d’arte, inutile, lui e la sua poesia: di fronte alla poesia dei folli, la poesia del savio, ottenebrata, scompare.”

Le Muse o Mneiadi (dalla madre Mnemosine), erano le Dee del Canto e della Poesia. Tre, secondo alcune fonti; nove, secondo altre.
Figlie di Giove e di Mnemosine, la Memoria, i loro nomi ed epiteti erano:
– Melete o l’Esercizio
– Mneme o la Memoria
– Aoide o il Canto
riguardo il numero di tre; in numero di nove, invece, erano:
–     Clio, la Glorificata
– Enterpe, la Rallegrante
– Talia, la Festosa
– Melpomene, la Cantante
– Tersicore, la Danzatrice
– Erato, la Nostalgica
– Urania, la Celeste
– Polimnia, la Ricca di Inni
– Calliope, il Bel Canto

Nessuna di loro,però, aveva una sola prerogativa: Clio, ad esempio, era anche la Musa della Storiografia, mentre Erato era anche la Musa della Poesia Amorosa e Calliope lo era del Canto Epico.
La più nota e anche la più celebrata è, senza dubbio, quest’ultima, ma tutte con il loro canto e la loro musica incantavano Natura, uomini ed animali e gli stessi Dei. Perfino il
monte Elicone, su cui le bellissime Dee avevano fissato la loro dimora, si lasciava incantare e rapire dal loro canto e dal suono delle loro lire al punto da continuare a svettare verso il cielo.
Fu l’alato Pegaso che fermò quella crescita con un bel colpo di zoccolo alla cima più alta.
Pegaso, il cavallo alato, frequentava assiduamente il monte Elicone perché le Muse gradivano molto la sua compagnia e si dice che l’alato figlio della Medusa abbia fatto scaturire la sorgente Ippocrene proprio per dissetare le bellissime, divine amiche.
Allegre e spensierate, esclusivamente dedite al canto e alla poesia, le Muse rallegravano i banchetti divini; soprattutto quelli nuziali.
Famoso quello delle nozze di Teti con Peleo.
In quell’occasione  furono invitati tutti gli Dei, tranne  Eris, la Dea della Discordia. Quella, però, si presentò con una  splendida mela rossa che gettò sul tavolo prima di allontanarsi con la ormai a tutti nota frase:
“Alla più bella!”
L’episodio passò alla mitologia come il pomo della discordia e come tutti sanno, fu all’origine della disastrosa guerra di Troia… ma quella è un’altra storia.

 

 

Belle, gioviali e anche generose: le Muse insegnarono l’arte della guarigione e della profezia.
Belle e generose! Certo! Ma anche gelose e vendicative. Gelose della propria arte e vendicative con chi provasse ad eguagliarla.
Come dimostrano episodi come quelli con le Sirene o con Tamiri.
Tamiri era un giovane bellissimo, ma era anche il primo uomo ad innamorarsi di qualcuno appartenente al suo stesso sesso.
Non che la cosa scandalizzasse qualcuno!
Uomini e donne erano invaghiti di lui, mentre egli era perdutamente innamorato di Giacinto, il mortale più avvenente della terra.
Per sua disgrazia, però, Tamiri aveva come rivale nientemeno che Apollo il quale si liberò di lui nel modo più infido e crudele: disse alle Muse che quegli si era vantato di essere più bravo di loro nell’arte del canto.
La reazione delle bellissime, vendicative, divine fanciulle, fu immediata   e spietata: lo accecarono, lo resero sordo e lo privarono della memoria.

Più spietate ancora, quelle gioiose, divine fanciulle si mostrarono con le Sirene in una sfida di canto.
Benché il canto delle Sirene fosse meraviglioso e perfino più ammaliante di quello delle Muse,  la dea Era, che doveva fare da Giudice,  per compiacere il capriccioso consorte assegnò alle Muse la palma della vittoria.
Fu così che le Sirene persero le ali e le Muse acquistarono l’aureola: con le piume delle ali strappate alle Sirene, le Muse intrecciarono corone con cui si cinsero il capo.

LE ERINNI

LE  ERINNI

Nate dall’unione fra  Aria e Madre Terra, le Erinni erano più antiche di ogni altra Divinità e vivevano nell’Erebo (Inferno),   accompagnandosi spesso ad Ecate, Dea infera.
Interessante sapere che in quello stesso “evento” nacquero anche:
– Terrore, Collera, Lite, Paura, Vendetta, Battaglia e Oblio, ma anche:
– Destrezza, Valore, Giuramento, Trattato.

Le Erinni erano tre e loro nomi erano: Aloto, Tisifone eMegera. Il loro aspetto era davvero orrendo: vecchie, decrepite e con la pelle nera come il carbone; per capelli esibivano un contorto cespuglio di teste di serpenti e su un corpo umano reggevano teste di cane ed ali di pipistrello; le mani, infine, erano ungulate e provviste di pungoli con punte di bronzo per procurare ai perseguitati i più indicibili tormenti.

Questo, bisogna precisare, era l’aspetto delle Erinni-Infuriate, (le Furie, le chiamavano i romani).
C’erano anche le Erinni-Placate e il loro aspetto era assai più rassicurante, poiché era quello di maestose matrone.
Il loro appellativo era: Eumenidi, ossia “Gentili” oppure “Solenni”, poiché tale era la loro natura quando agivano in quella veste.

I loro compiti erano molteplici: ascoltare le suppliche degli anziani contro le insolenze dei giovani, accogliere le istanze degli ospiti maltrattati nei confronti degli ospitanti, punire lo spergiuro, le colpe e le offese verso padri e fratelli, ma, soprattutto, perseguitare senza tregua coloro che si macchiavano di matricidio. Esse erano la personificazione dei rimorsi che tormentavano le coscienze dei colpevoli e placarle, significava placare la propria coscienza attraverso il perdono e l’oblio.
Al supplice si faceva cingere il capo con ghirlande di narcisi e sempreverdi e stessi  fiori si offrivano alle Erinni: il narciso,
fiore noto per le propiertà narcotiche   (da cui il nome), che aiutava a dimenticare.
Purificarsi era essenzial. Non solo per il colpevole, ma anche per  coloro che gli  stavano vicino, poiché correvano il rischio di incorrere nelle stesse persecuzioni. Inoltre, era prudente non fare mai il loro nome durante una conversazione, se non con l’appellativo di Eumenidi.

Riti di purificazione, ghirlande, libagioni e il sacrificio di un ariete o di una pecora nera, bastavano a placare le nere signore dei tormenti, le “Solenni”.
Tutti gli anni, in ricorrenza di feste in loro onore, i sacerdoti, tutti discendenti di re Esichio, officiavano davanti alle grotte in cui vivevano. Sopra altari di terra nera e tra cespugli di sempreverdi, i fedeli, tutti con il capo coperto con ghirlande di sempreverdi e narcisi, offrivano miele, fiori e il sangue di una pecora: davanti a quei doni, le “Auguste Matrone” non sarebbero riuscite a resistere: si sarebbero cibate di quel miele e dissetate di qul sangue ed avrebbero risparmiato l’intero gregge e la comunità tutta.

Furono molti gli Eroi, i Principi  ed i Re inseguiti dalle Erinni per le loro colpe, ma la persona a cui davvero non concedettero tregua fu il principe Oreste, figlio matricida di Clitennesta, moglie di Agamennone. Anche quella, affato innocente: con l’amante,  aveva ucciso il marito Agamennone, di ritorno dalla guerra di Troia.
Le Erinni, però, quasi la ignorarono. Forse perché il matricidio era una colpa assai più grave dell’uxoricidio.
Continuarono a tormentarlo anche dopo il rito di purificazione cui Oreste si era sottoposto: capo rasato, abluzioni in acqua corrente ed esilio di un anno.
Non gli concessero un attimo di tregua; dormivano perfino accanto a lui.
Fu proprio mentre erano immerse nel sonno che Apollo, intervenuto in favore del giovane perseguitato, riuscì a farlofuggire con l’aiuto  di Ermete.
Lo spettro di Clitennestra, però, le svegliò e quelle ripresero l’inseguimento.
Dopo aver vagabondato di città in città, regione in regione, per un anno intero, Oreste raggiunse il Tempio di Atena, sull’Acropoli di Atene: per completare il rito di purificazione, il supplice doveva abbracciare il simulacro della Dea.
Qui lo raggiunsero le Erinni, ansanti per la corsa e veramente infuriate. E ancora di più si infuriarono, quando appresero che il giovane principe era stato sottoposto a giudizio e perdonato della colpa.
Per protesta contro quel verdetto, Tisifone, si dice, si sia impiccata per offrirsi in espiazione dell’orrendo peccato.

Maggiori informazioni http://storia-e-mito.webnode.it/products/le-erinni/

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CREATURE FANTASTICHE e MITOLOGICHE – LE SIRENE

LE SIRENE

LE  SIRENE

Affatto benevoli e gentili erano queste favolose creature marine: infide ed adescatrici. La loro voce incantata stregava il povero navigante e lo conduceva a morte certa.
Proprio in quell’ora che, come disse il Sommo Poeta, al navigante “intenerisce il cor”, nel silenzio infinito di un mare sterminato si levava una voce. Era un canto dolce e malinconico, che attirava i marinai stanchi e con il cuore  gonfio di nostalgia.
Era un canto dalla bellezza struggente. Un canto divino.
I marinai non riuscivano a resistere a tale  irresistibile richiamo e puntavano la prua della nave nella direzione da cui proveniva tanto incanto e tale soave delizia per le orecchie e il cuore: quel canto aveva la voce della sposa lontana, del figlio e della madre lasciati nella patria terra.
Era un canto che inebriava e stordiva e conduceva dritto verso la morte, nelle braccia di splendide fanciulle la cui bellezza era quasi pari all’ingannevole splendore della loro voce.
Ma non erano fanciulle normali. Erano creature dalla forma bizzarra: metà uccello e metà bellissime fanciulle.

Stanno sedute sopra scogliere infiorate dai lussureggianti colori e i marinai, lasciati remi e timoni, stavano ad ascoltare quel canto.
Troppo storditi per accorgersi che quella scogliera fiorita non era di roccia, ma di ossa umane ed era troppo tardi per fuggire.
Erano le “Rocce dei Naufraghi”, che ogni navigante conosceva attraverso i racconti di altri naviganti ed in cui sperava di naufragare mai.
E quelle donne adescatrici, splendide ed orribili insieme, erano le Sirene e erano belle quanto crudeli.
Quale bizzarro scherzo della Natura le aveva rese così mostruosamente belle? Metà donne e metà uccello.
Erano le figlie del dio del fiume  Achelao e della Musa Sterpe, abilissime nel suono e dalla voce dolce e struggente.
I loro nomi erano: Leucasia, Molpe, Imerope, Teles… Erano dodici. Dodici fanciulle piene di grazia e dolcezza, tanto che Demetra, la Dea della Terra, le volle come compagne di sua figlia Persefone.
Fu proprio questa la loro disgrazia.
Erano in compagnia di Persefone (Proserpina) quando Ade (Plutone) la rapì per condurla con sé negli Inferi.
Demetra si infuriò così tanto con loro per non aver impedito il rapimento, che le trasformò nei mostri in cui i naviganti ebbero, da allora, la disgrazia di imbattersi lungo le loro rotte.

Le più conosciute tra loro: Telsiope l’Incantatrice, Aglaope la Meravigliosa Voce, Pasinoe la Maliarda, Partenope la Vergine… (da cui prese il nome Napoli, la Citta Partenopea).

 Umiliate e vergognose del proprio mostruoso aspetto, le Sirene si ritirarono su un’isola del Tirreno dove cominciarono ad attirare al naufragio i naviganti che avevano la sfortuna di passare da quelle parti.

L’episodio più famoso legato alle Sirene è senza dubbio quello con Ulisse che vuole ascoltare il loro canto ma non vuole farsi catturare.

Sappiamo tutti com’è andata.

E le Sirene? Che fine hanno fatto?

Sono immortali, ma di loro non si è più saputo nulla perché, vinte ed umiliate da Ulisse, sopravvissuto al loro canto, si sono buttate in mare scomparendo per sempre sotto la sua superficie.

Successivamente ebbero una parziale riabilitazione: assursero a simbolo della qualità ammaliatrice delle donne, ma senza più quell’alone di morte e crudeltà.

Localizzate nel Tirreno meridionale, ebbero un centro di culto piuttosto importante in uno splendido Tempio nella penisola di Sorrento.

Oggi, con la completa riabilitazione, Sirena è davvero sinonimo di bellezza e grazia femminile.

Maggiori informazioni http://storia-e-mito.webnode.it/products/le-sirene/

ANTICA GRECIA – CREATURE FANTASTICHE e MITOLOGICHE

LE  NINFE

Nei tempi in cui si adoravano gli Spiriti, di cui  si credeva fossero animati gli elementi della Natura, si divinizzò il fulmine che atterra, la fiamma che incenerisce, la nuvola che si scioglie in pioggia o grandine, il vento che scuote, la fiera che dilania.
Tutti terrificanti fenomeni che contribuirono alla costruzione delle fondamenta arcaiche della mitologia.

Più tardi l’uomo riuscì a non farsi più solamente atterrire dalla pericolosa potenza della Natura, ma si lasciò anche affascinare dalla bellezza del Creato, sempre pericolosa, ma anche grandiosa e ispiratrice.
La guardò con animo diverso: commozione, stupore, poesia… soprattutto poesia.
Furono i poeti a creare i Miti: quelle favole che cantavano la Natura, la sua bellezza, la sua pericolosità, la sua generosità, la sua violenza.
Lo fecero attraverso l’allegoria, l’enigma, la fantasia l’immaginazione.

Era nato il MITO, magica tela su cui scorrevano i ritmi della Vita: l’ineluttabilità del Fato, i paurosi Misteri della Natura,  le inquietanti divinazioni delle Profetesse, i chiassosi riti delle Baccanti, le risate argentine delle Ninfe…

Dal greco nimpha, il termine letteralmente significa “fanciulla in età da marito”.
Personificazione delle forze della Natura, le Ninfe erano parte integrante di essa e, di conseguenza, avevano con la Natura un rapporto particolare: fiumi e laghi, mari e monti, prati e sorgenti, boschi e alberi… tutti avevano la propria Ninfa protettrice.

Erano fanciulle bellissime e dotate di straordinari poteri. Di animo gentile, erano sempre pronte a rendersi utili a Divinità e uomini.
Diana, Apollo, Dioniso e Soprattutto i Satiri, Geni della Natura, ricercavano continuamente la loro compagnia e i loro favori.
Talvolta le Ninfe si concedevano anche agli uomini, ma quei contatti finivano quasi sempre in drammi e tragedie, soprattutto se la Ninfa in questione era immortale.
Non tutte le Ninfe, infatti, al contrario degli Dei, erano immortali: le Ninfe dei Monti, quelle dei Boschi, ma soprattutto le Ninfe degli Alberi, erano mortali proprio come gli uomini, benché la loro vita fosse assai più lunga.
In onore di queste splendide creature gli Antichi praticarono culti risalenti addirittura in età arcaica; per propiziarsene i favori, innalzarono in loro onore Templi che chiamarono Ninfei, dove praticavano riti ed offrivano doni: latte, miele, frutta, vino e fiori.

Le Ninfe erano assai numerose, perché numerosi e sfaccettati erano gli elementi della Natura.
Le più conosciute di loro erano, forse, le Ninfe dell’Acqua: di Mare, di Fiume, di Lago, di Sorgente e perfino di Stagno.
Cantori e Poeti da sempre ci hanno fatto conoscere le mitiche Nereidi, le favolose Sirene, le splendide Oceanine e altre ancora.
Una prima classificazione la possiamo fare tra le Ninfe di Acqua e Ninfe di Terra
NINFE di Acqua salata (mari ed oceani)

– Oceanine
– Nereidi
NINFE di Acqua dolce
– Naiadi: ninfe di sorgenti
– Potameidi: ninfe di fiume
– Limniadi: ninfe di laghi
– Eleadi: ninfe di paludi
NINFE di Terra:

– Driade: ninfe dei boschi
– Amadriade: ninfe degli alberi
– Oreadi: ninfe dei monti
– Napee

Ninfe di Terra

Ninfe  di  Terra

LE  DRIADI

Schiamazzi e grida echeggiavano lungo ampie vallate e boschi ombrosi: erano i cortei di Baccanti e Satiri che facevano da corte a Bacco.
Lungo quegli stessi sentieri, però, a quelle grida si mischiavano allegri gridolini e risate squillanti:erano le Ninfe dei Boschi, delle Valli e dei Monti.
Erano giovani, belle e allegre e la loro fresca bellezza era l’immagine più dolce, serena e gentile della Natura.
Erano le Driadi, le Oreadi e le Napee…

                                          

Erano le Ninfe dei Boschi, figlie di Nereo e Dori e compagne di Euridice.
Ogni bosco aveva le sue Ninfe:
– Driade, si chiamavano quelle delle querce
– Meli’e era il nome delle ninfe del melo
– Melie erano le ninfe del frassino, figlio di Ermete.

Il frassino, chiamato anche “amico della folgore” era considerato un albero sacro. Era, infatti, tra le specie d’albero quello colpito più frequentemente dal fulmine e poiché gli alberi incendiati erano fonte di fuoco, era considerato il più sacro fra gli altri. La Ninfa che l’abitava, era tra le più rispettate e venerate e si fregiava anche del titolo di “Dama delFuoco”

 

                                     AMADRIADE

Le Driadi erano mortali, al contrario delle Ninfe del Mare e degli Oceani. La loro vita, però, era assai lunga e scorreva in grande serenità ed allegria e soprattutto, conservando un’eterna giovinezza.
Le Driadi nascevano, crescevano  e morivano con l’albero.
Ogni pianta che moriva, infatti, causava la morte della favolosa creatura che viveva nella corteccia che ne  rivestiva l’albero. Il nome era AMADRIADE.

Molti i racconti sorti intorno alla vita ed agli  idilli innocenti delle  Driadi e delle Amadriadi, intrecciati con Divinità e mortali.
Ne riportiamo alcuni.

 


DRIOPE

Era una Driade assai carina e gioiosa e passava le sue giornate in compagnia delle amiche Driadi ed Amadriadi occupandosi del gregge del padre.
La sua grazia e bellezza attrassero l’attenzione di Apollo, soprattutto dopo che l’ebbe vista fare il bagno nel fiume.
In principio Driope respinse le profferte amorose del bel Dio del Canto, ma questi non si arrese. Si tramutò in una graziosa tartarughina e si lasciò accarezzare dalle ragazze.
Appena, però, Driope si attirò in grembo l’animaletto, Apollo si trasformò in serpente mettendo in fuga tutte le ninfe.
Tutte eccetto Driope, la quale, appena il Dio ebbe ripreso le bellissime, abituali sembianze, si lasciò sedurre, rispondendo con slancio amoroso alle focose attenzioni di Apollo.
Il frutto di tanta passione fu chiamato Anfisso il quale, diventato adulto, innalzò al divino padre un grandioso Tempio in cui Driope svolgeva funzioni di sacerdotessa.
Il richiamo della vita dei boschi, libera e spensierata, però, era assai forte e così, un giorno, Driope lasciò il Tempio per raggiungere le compagne.
Prima di partire, la ninfa piantò un albero di pioppo, che divenne la pianta sacra del  dio Apollo.

                                                            Le Oreadi

                                           

 

Erano le bellissime, giovanissime vergini Ninfe dei Monti, amanti della caccia, della natura e soprattutto della solitudine.
Figlie di Giove, trascorrevano le giornate tra vallete ombrose e boschi annosi e qualche volta seguivano in corteo le scorribande di Diana, la Dea della Caccia.
La più importante tra loro era certamente Eco, la cui triste storia d’amore la portò quasi alla morte.

 

ECO  e  NARCISO

 

Eco era una graziosissima Ninfa dei Monti con la tendenza ad impicciarsi sempre dei fatti degli altri.
Ad esempio, distraeva Giunone con bellissime favole, (alla piccola Ninfa piaceva molto parlare…) per permettere a Giove di intrattenersi con altre donne.
Quando Giunone scoprì il giochetto, la punì in modo davvero insolito e particolare: non avrebbe mai più parlato per prima, ma solo ripetuto scioccamente quello che dicevano gli altri… e solo le ultime parole.
Un giorno mentre se ne andava vagabondando per i boschi
Eco si imbatté in un giovane di straordinaria bellezza e fu subito un colpo di fulmine.
Ignorando che quel bellissimo giovane era addirittura Narciso, figlio del fiume Cefiso, innamorato di nessun’altra creatura che di se stesso, la bella Ninfa cominciò a seguirlo, guardandolo di nascosto estasiata e scivolando leggera tra siepi ed arbusti.
Sempre di nascosto, la piccola Ninfa si lasciò condurre fino ad una sorgente dove Narciso si fermò per dissetarsi.
Prima ancora che potesse chinarsi sulle acque della fonte, il bellissimo giovane sentì un fruscio alle spalle.
“Chi è là!” chiese.
“…là!” rispose Eco
“Esci fuori e fatti vedere, chiunque tu sia!”
“… tu sia!” fece ancora la voce della piccola ninfa.
“Chi sei? Dico a Te!”
“… a te!” ancora Eco.
Non vedendo nessuno, il ragazzo si chinò sulla fonte e tese le mani per prendere acqua e quale non fu la sua sorpresa: riflesso sulla superficie dell’acqua c’era un volto dalla bellezza così unica e rara che egli si sentì stringere il cuore dall’emozione.
“Chi sei? – domandò e non ricevendo risposta, continuò – La creatura degna dell’amore di Narciso… ecco, chi sei tu.”
Fino a quel momento, infatti, Narciso aveva rifiutato ogni offerta d’amore, reputandole indegne di lui.
“… sei tu!” lo raggiunse alle spalle la voce della piccola Ninfa che aveva trovato il coraggio di lasciare il  nascondiglio, avvicinarsi e tendergli le braccia.
“Vai via da me, piccola, sciocca Ninfa. – la respinse il bel Narciso, infiammato d’amore per quel volto riflesso nell’acqua – Nessuno, all’infuori di lui è degno dell’amore del bel Narciso.”
“… bel Narciso.” sussurrò la povera ninfa allontanandosi tra la vegetazione, mentre Narciso tornava alla fonte ed al volto riflesso nella superficie dell’acqua.
“Chi sei?” chiamò ancora, ignorando di parlare all’immagine di se stesso.
“Ahimè!… Ahimè!” cominciò a genere, poiché quello non rispondeva e restava immobile se non per ripetere i suoi gesti.
“…Ahimè!” rispondeva l’eco sempre più lontana.
Continuò così, fino a quando il bellissimo giovane non cadde riverso tra fiori di lillà.
Gli Dei, impietositi, lo trasformarono nel fiore che porta il suo nome.


CIRENE

 

Cirene era una fanciulla attratta più dai passatempi maschili che da quelli femminili; amava più andarsene in giro fra i monti ed a caccia nei boschi, con la scusa di proteggere le greggi del padre, piuttosto che filare, tessere ed occuparsi di faccende domestiche.
Apollo la vide un giorno che aveva appena cacciato pericolose belve e subito pensò che quella coraggiosa fanciulla fosse davvero degna di lui. Oltretutto, Cirene non era soltanto una coraggiosa fanciulla, ma anche una bellissima fanciulla.
Non faticò a convincerla e la fece salire sul suo cocchio d’oro per condurla in una città che battezzò con il nome di lei.
Anche Venere fu felice di quella scelta e accolse i due innamorati in una stanza tutta d’oro.
Apollo fu così soddisfatto e contento di quell’incontro, che concesse di esudire il suo più grande desiderio.
Cirene, eccellente cacciatrice, non aveva, in verità, un grande istinto materno, per cui chiese di poter vivere la sua vita a caccia tra i monti,
Apollo, lieto di quella richiesta che gli permetteva di dedicarsi ad altre avventure, le concesse una lunghissima vita dedicata alla caccia.
Il figlio nato da quell’amore, cui fu dato il nome di Aresto, fu affidato alle Ninfe del Mirto, figlie di Ermete-Mercurio, che fecero di lui un grande indovino,

LE NAPEE


Giovanissime, minute ed alate, erano le Ninfe dei Prati. Si esibivano in aeree danze sull’erba e sui prati con tanta grazia e leggerezza da sfiorare steli, foglie e corolle, senza piegarli.
Lucciole e farfalle erano le loro amiche, ma essendo dotate del potere della trasformazione, potevano mutarsi in leggiadre fanciulle e girovagare per monti, valli.

 

Ninfe Oceanidi

Ninfe Oceanidi

Erano figlie di Oceano ed erano in numero di cinquanta.
Dotate di grande bellezza e fascino particolare,  simboleggiavano le Acque-della-Vita e per questa loro natura erano estremamente generose ed altruiste. Tra i loro compiti c’era quello di  soccorrere i naviganti, per cui non era raro vederle comparire, come meravigliosi miraggi, fra le onde che sciabordavano contro le fiancate delle navi.
Le loro storie erano sempre un intreccio con altre storie e noi accenneremo ad alcune di loro: Anfitrite, Eurinone, Tetide, Elettra…

                                             ANFITRITE

La ninfa più bella che si fosse mai vista tra i flutti del mare, Anfitrite era corteggiata da tutti, Divinità e mortali. Su di lei pose gli occhi lo stesso Poseidone, il Dio del Mare.
Come con gli altri spasimanti, anche al Signore dei Mari e degli Oceani, la bella ninfa, il cui nome letteralmente significa “terzo elemento” (il Mare; gli altri due elementi sono la Terra e il Cielo), graziosamente, ma fermamente, rifiutò sempre le profferte amorose.
Poseidone, però, non era abituato ai rifiuti e non si dava per vinto e Anfitrite per sfuggire ai suoi continui assalti, decise di lasciare la sua residenza marina e di rifugiarsi sul Monte Atlante.
Qui, però, continuavano incessantemente a giungere messaggeri inviati da Poseidone per cercare di convincerla a tornare in mare.
A convincerla, dopo numerosi tentativi falliti, ci riuscì Delfino, il quale con un’eloquenza pari solo alla perseveranza dello stesso Poseidone, vinse ogni resistenza della bellissima ninfa.
Anfitrite tornò da Poseidone.
I due convolarono a nozze e la bella ninfa andò a vivere in un Palazzo d’Oro  nelle profondità delle acque come Regina degli Abissi.
Poseidone, però, benché molto innamorato della bella sposina, era un marito del tutto infedele: Dee, Ninfe, donne mortali… non se ne faceva scappare una.
Anfitrite alla fine perse la pazienza. Soprattutto con la bella Scilla, a cui il fedifrago marito riservava molte più attenzioni che alle altre donne.
Decise di vendicarsi e lo fece con una certa, pur comprensibile perfidia: versò delle erbe sconosciute nell’acqua dove la ninfa Scilla andava a bagnarsi e la trasformò in un mostro… quello che prese a tormentare i naviganti che passavano da quelle parti.

 

                                            
EURINONE

Generosa con tutte le creature, Eurinone lo fu in modo particolare con il povero Efesto quando il piccolo Dio fu scaraventato giù dall’Olimpo.
Figlio di Era (Giunone) e di padre quasi ignoto
(neppure Giove voleva riconoscerne la paternità), Efesto (o Vulcano), che sarebbe diventato un giorno il Dio più forte, violento ed irascibile dell’Olimpo, alla nascita era un tesserino debole e deforme.
E soprattutto brutto.
Tanto brutto che perfino sua madre lo rifiutò e pensò subito di disfarsene scaraventandolo giù in mare: un atto che, diventato adulto, il Signore del Fuoco non dimenticò e ricambiò… ma questa è un’altra storia.
Eurinone si prese cura del piccolo derelitto: lo allevò, lo curò e lo educò come una vera madre ed Efesto fu a lei eternamente grato.

Bellissima, il volto candido come la perla, i capelli lunghissimi e dagli argentei riflessi blu, le braccia sode e il seno florido, Eurinone, però, non era come le sorelle: lei era metà donna e metà pesce, ma non era una Sirena,  creatura metà donna e metà uccello.

 

TETIDE ED  ELETTRA

 

TETIDE

Sicuramente la più conosciuta fra tutte le ninfe: Tetide, infatti, era la madre dell’eroe Achille…una storia di cui ci oppure meno in altra sede.
Di lei si invaghì il dio del Mare, Poseidone e la chiese in sposa.
L’Oracolo, però predisse che il figlio di Tetide da adulto sarebbe stato più famoso del padre ed a Poseidone la cosa non sarebbe garbata per niente.
Nonostante l’amore sincero che nutriva per la bella Tetide, rinunciò al matrimonio, scegliendo la sorella Anfitrite.

ELETTRA

Signora dell’Ambra.
Letteralmente la parola elettra vuol dire proprio ambra.
La ninfa soleva raccogliere le lacrime che scorrevano dagli occhi delle figlie di Elio e l’ambra era sacra al Sole. La via dell’Ambra, che correva nel Mediterraneo era continuamente percorsa da marinai per l’importanza che questa rara sostanza marina aveva nei commerci.
L’Argo, infine, la nave degli Argonauti, che ne seguì la rotta durante il viaggio per la Colchide alla conquista del Vello d’Oro, fu proprio nell’isola di Elettra che approdò e non a Samotracia, come sostenuto da alcuni storici antichi.

 

Ninfe di Mare

Ninfe  di  Mare

NEREIDI o Ninfe di Mare

Una delle più belle Nereidi, ma assolutamente refrattaria al matrimonio. Per questa ragione, forse, era diventata inseparabile compagna di un’altra Dea, Diana, contraria come lei ad ogni approccio amoroso.
Un giorno la ninfa si bagnò nel fiume Alfeo il quale alla vista delle sue beltà, si infiammò d’amore. Assunte sembianze umane, Alfeo tentò di usarle violenza. Aretusa per sfuggirgli invocò l’aiuto di Diana che la trasformò in una sorgente, ma Alfeo tornato fiume, unì le sue acque a quelle della sorgente.


ANDROMEDA

Figlia di re Cefeo, la principessa Andromeda era talmente bella che sua madre, la regina Cassiopea, accecata da materno orgoglio osò paragonare la sua bellezza a quella delle ninfe Nereidi.
“Al confronto della bellezza della mia Andromeda – si lasciò sfuggire un giorno – le avvenenti figlie della divina Doride apparirebbero come una bella giornata durante l’eclissi.”
Non l’avesse mai detto!
La divina Doride, ma soprattutto le sue cinquanta figlie, si sentirono così offese da tanto ardire che escogitarono un tiro davvero briccone per mettere fuori gioco la bellissima Andromeda.
Pregarono e convinsero Poseidone,Re delMare, ad inviare fuori delle acque del mare un mostro che terrorizzasse il regno di Cefeo.
Il mostro arrivò, puntuale e terrificante, a devastare isole e litorali. Per far cessare tanto flagello, l’Oracolo, interpellato, rispose che solo il sacrificio della bella Andromeda avrebbe placato la collera delle Nereidi.
Sia pur cpn gran dolore , la povera Andromeda  non si sottrasse al suo destino. Incatenata ad uno scoglio, aspettava che il mostro uscisse fuori delle acque del mare e facesse di lei un gustoso spuntino.
Il mostro arrivò, ma, immancabile, arrivò anche l’eroe di turno che salvò dalle sue fauci la bella fanciulla… quell’eroe si chiamava Perseo. Era un giovane forte e coraggioso che già aveva sistemato per benino quell’altro mostro che era la Medusa, una delle tre Gorgoni, ma… ma questa è un’altra storia.

 

Ninfe di Sorgenti e di Fiume

Ninfe  di  Sorgenti  e  di  Fiume

NAIADI –  Ninfe di Sorgente  –    Erano fanciulle di fresca bellezza e dall’allegro sorriso; erano mortali, ma dall’eterna giovinezza.  Possedevano molte altre virtù, come quella di assumere qualunque forma volessero.
La loro esistenza era un continuo intreccio di giochi, danze e canti. Comparivano e scomparivano con la rapidità di una lucciola, tra ciottolame, rivoletti, cascate e corsi d’acqua, in un susseguirsi di giochi di metamorfosi e trasformazioni.
Dei, Satiri e cacciatori eraono irresistibilmente attratti dai loro canti e dalla loro fresca bellezza e il gioco della trasformazione diventava spesso un mezzo per sfuggire loro: basta l’esempio  di Apollo e Dafne.

ILA

 
Non sempre, però, erano le Ninfe a subire assalti amorosi, qualche volta erano proprio loro metterli in atto.
Ne fece le spese Ila, compagno di Ercole durante il viaggio degli Argonauti verso la Colchide.
Ila, uno dei rematori, era un ragazzo bellissimo e di grande fascino ed Ercole lo amava come un figlio. Mentre era intento alla voga, il ragazzo perse il suo remo per cui si dovette scendere a terra per cercare un albero adatto per fabbricaerne un altro.
Così fecero. Sbarcarono Ila, Ercole e un certo Poliremo (non quello dell’unico occhio).
Cercato e trovato l’albero e il ramo adatto, Ercole si pose subito al lavoro per abbatterlo, mentre  Ila si allontanava verso una sorgente lì vicino, per attingere acqua per sé e compagni.
Nell’acqua c’era uno stuolo di Naiadi che stavano allegramente trascorrendo qualche ora di ozio.
Alla vista del bellissimo  giovane, smisero di giocare.
Appena, però, il ragazzo sporse il braccio verso il ciglio per raccogliere acqua con la brocca d’argento, le ninfe sollevarono le loro braccia e lo attirarono con loro sul fondo.
Polifemo, che a qualche metro di distanza aveva assistito alla scena, comimciò ad urlare e le sue urla attirarono l’attenzione di Ercole che accorse immediatamente.
Quando, però, l’eroe raggiunse la sorgente l’acqua era cheta e tranquilla e di Ila non c’era alcuna traccia, come non ve n’era delle ninfe.

                                        
GIUTURNA

La ninfa di sorgente più famosa della mitologia romana.
Moglie di Giano, era la madre di Turno, re dei Rutuli ed avversario di Enea.
Su di lui pendeva un oracolo secondo il quale sarebbe morto per mano di Enea, figlio di Venere.
La ninfa si oppose con tutte le sue forze all’ avverso destino del figlio, ma nulla potè contro di esso.
Alla fine, Enea, cui Turno era diventato acerrimo nemico per avergli portato via Lavinia, figlia di Latino, Re del Lazio, finì per ucciderlo.
Alla fonte di Giuturna, nel Foro Romano, la leggenda narra che si siano abbeverati i cavalli dei Dioscuri:Castore e Polluce.

 

Patameidi – ninfe dei fiumi

PATAMEIDI: ninfe dei fiumi

Erano fanciulle e ancora vergini, di età assai giovanile. Loro compito era proteggere la natura, renderla piacevole e lussureggiante.
Altro compito, quello di proteggere gli amori appena sbocciati, per cui erano invocate da fidanzati, i quali andavano a bagnarsi nelle acque di fiume invocando la fertilità per dopo le nozze.

Erano anche guaritrici e le acque in cui vivevano erano benefiche e curatrici di diverse malattie, compresa quella della sterilità (incubo per molte donne)
Erano mortali, ma vivevano a lungo ed eternamente giovani, per cui la loro era un’esistenza felice trascorsa tra canti, danze e brevi storie d’amore.


DAFNE

Bellissima ninfa dei fiumi, Dafne era figlia di Gea, la Madre-Terra, di cui era anche sacerdotessa.
Dafne era piuttosto refrattaria al matrimonio, come molte ninfe, che preferivano la spensierata vita dell’adolescenza. La sua grande bellezza, però,le attirò inevitabilmente l’attenzione di molti corteggiatori, così come il latte attrae le mosche.
Due in particolare: Apollo e un certo Leucippo.
Dafne respinse anche loro, come avev fatto con tutti gli altri.
Leucippo, però, riuscì a starle vicino ricorrendo ad un ingegnoso stratagemma: si travestì da donna ed entrò  far parte del gruppo di compagne, altre ninfe, con cui di solito si intratteneva sulle sponde dei fiumi.
Apollo scoprì l’inganno e per liberarsi del rivale escogitò un sistema davvero particolare e crudele: indusse le ninfe a bagnarsi nelle acque del fiume e quando le ninfe scoprirono la diversità di quella che credevano una loro compagna, l’assalirono e l’uccisero.
Apollo, però, con il suo stratagemma non riuscì che a farsi respingere per l’ennesima volta dalla sua bella.
Per sfuggirgli,  inseguita da Apollo, Dafne invocò il soccorso materno e Gea, la Dea-Madre, la trasformò in alloro, la corona dei poeti e dei cantori.

 

F I N E