Il linguaggio della NATURA – I FUNGHI

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Una prelibatezza, questi meravigliosi “frutti di bosco”, conosciuti ed apprezzati fin dall’antichità.    Le prime testimonianze sulla raccolta e il consumo dei funghi risalgono alla Preistoria, quando, però, il loro impiego non era solo alimentare.  Per via delle proprietà curative, ma anche  per quelle allucinogene,  i funghi venivano utilizzati soprattutto come medicamento e come strumento nei rituali magici.

La prima testimonianza documentata del suo consumo alimentare, in realtà, risale al 2000  a.C. ed alla civiltà mesopotamica, i cui Sovrani, pare, ne fossero assai golosi, ma erano apprezzati anche in Cina, dove erano erano chiamati “Cibo degli Dei” ed in Egitto, dove avevano un posto d’onore  sulle tavole. Così anche sulla tavola dei Greci prima e dei Romani poi, presso cui questo frutto meraviglioso, era diventato “simbolo di vita”.  Pausania, scrittore greco, racconta, infatti che l’eroe  Perseo, dopo essersi dissetato con l’acqua raccolta nel cappello di un fungo, decise di fondare la potente città di Micene. A classifiicarli e descriverne per primo le caratterisiche, pare sia stato Teofrasto, un discepolo di Aristotele.

I Romani apprezzavano così tanto questo frutto, da dargli il nome di “Amanita caesarea”, un cibo, dunque,  degno di un Cesare. Avevano perfino dei “raccoglitori” espertissimi e fidatissimi;  di sicuro, i primi raccoglitori devono aver fatto delle spiacevoli esperienze prima di stabilire  quali fossero i funghi “buoni” e quali,  quelli “cattivi”.  Apprezzato dai buongustai, ed esaltato da poeti e scrittori, come Giovenale, Plutarco, Apicio o Plinio il Vecchio, nella sua opera “Naturalis Historia”, questa meraviglia della natura cominciò a coprirsi di miti e leggende.

Fu proprio in questa epoca, infatti,  che i funghi,  da simbolo di vita, presero pian piano a diventare simbolo di morte, complici anche tutte le nefaste esperienze di avvelenamento con tutte quelle specie  velenose.  Famoso, il piatto servito da Agrippina al marito, l’imperatore Claudio, a base di funghi. Funghi velenosi naturalmente .

Risalgono proprio  all’epoca,  e si sono tramandate fino ad oggi, fantastiche e improbabili interpretazioni sulla loro origine,  a causa delle loro proprietà e soprattutto  della loro tossicità: origine diabolica, si diceva, oppure divina.

Per una classificazione più scientifica bisogna aspettare  il XVI secolo e per sfatare l’alone negativo di miti e leggende creatosi intorno a questo meraviglioso e gustosissimo frutto della natura, dovranno passare altri secoli ancora.

Nel Medio Evo, nonostante il grande utilizzo della cacciagione. i funghi erano largamente consumati sulle tavole dei nobili,  ma, grazie anche alle conoscenze acquisite ed alle ricette preparate nei conventi,  il suo uso divenne sempre più popolare. Così popolare e così comune come peccato di gola e prodotto afrodisiaco, da  indurre il Santo Uffizio a proibirne il consumo, perché distoglieva il fedele dall’idea della penitenza.

Dopo il Medioevo,  ritroviamo i funghi in tutti i grandi pranzi delle corti europee, soprattutto sulla tavola di  Re Sole; sempre presente anche nelle grandi cene di rappresentanza di  madame Pompadour, come, più tardi, in quelle  galanti della  spia più famosa  al mondo,  la  danzatrice Mata Hari.

Un prodotto ricercato, dunque,  chetroviamo su tavole insospettabili, come quella  di un grande della  musica italiana, Gioacchino Rossini, il quale definì il tartufo: “Il Mozart dei funghi”;  in verità, troviamo perfino nel menu del pranzo servito a Vienna alla fine del  Congresso del 1815.

Questi fantastici frutti di bosco, si sa,  nascono spontaneamente ovunque. Ciò, però, non significa che  siano da tutti apprezzati: in America,ad esempio, i funghi coltivati sono preferiti a quelli freschi, mentre in Russia e in  Estremo Oriente,  il consumo è davvero assai ridotto; in Inghilterra, infine, i funghi freschi sono quasi ignorati, sostituiti fa quelli coltivati.  Da qui, l’abitudine di coltivarli, sia pur con molte difficoltà. Ultimamente, però, è nata l’abitudine di surgelare i funghi spontanei, benché, sapore e gusto  finiscano per  risentirne.

Tanti i perché senza risposta, riguardo questa meraviglia della natura. Ad esempio,  un ottimo e commestibile fungo spontaneo delle Alpi, può essere velenoso  se cresce sugli Urali; e ancora: uno stesso fungo può assumere forma e sapore diverso, a seconda del posto, dell’altitudine e dell’humus in cui cresce. E tanti altri interrogativi ancor.

Nello studio di questi strani organismi si è sempre occupati più delle loro proprietà terapeutiche,  che della vita e crescita. Bisognerà attendere l’800  e la nascita di una moderna ricerca scientifica  per scoprire molti dei misteri che li circondavano e giungere ad una sicura classificazione.

Purtroppo, nonostante tali progressi e l’esistenza di ottimi libri scientifici, molte sono ancora le persone che continuano  a dare credito alle antiche dicerie… dicerie risalenti addirittura ad epoca romana, con le conseguenze che possiamo immaginare.

 

 

 

 

 

ANTICA ROMA – LE SEPOLTE VIVE

IL CAMPO SCELLERATO... ovvero, la tomba delle "sepolte vive"

Era un luogo lungo la strada selciata di Porta Collina dove le Vestali ree di inadempienza al proprio voto di castità venivano sepolte vive. Si trattava di un seminterrato provvisto di un pagliericcio e di una porticina che veniva sprangata dall’esterno ed in cui la sventurata doveva vivere la sua angosciosa e lunga agonia, con solo un bricco di latte, una pagnotta ed una lampada ad olio .

La prima di queste sventurate, sotto re Tarquinio Prisco, accusata di aver attentato alla propria virtù, fu la nobile Pinaria, figlia di Publio. Seguì Minuzia, la quale attirò i sospetti su di sé per la cura eccessiva che dedicava alla propria persona. Ad accusarla fu uno schiavo e non le fu possibile dimostrare la propria innocenza.

Nella guerra di Roma repubblicana contro i Volsci, la sorte era decisamente sfavorevole a Roma e si disse che gli Dei erano insoddisfatti e corrucciati ed esigevano sacrifici.
Si pensò subito alla condotta delle sacerdotesse di Vesta: molte delle disgrazie che piovevano sulla città venivano loro attribuite. Qualcuno mise in giro la voce che la responsabilità era proprio di una delle Vestali: Oppia, colpevole di aver oltraggiato la sua virtù con due uomini. Sottoposta a giudizio e condannata, la ragazza fu sepolta viva e i due presunti colpevoli, uccisi a colpi di verghe.

Stessa sorte toccò ad un’altra Vestale, la giovane Urbinia, questa volta durante la guerra di Roma contro Veio. Poiché in città e nelle campagne  donne e bambini si ammalavano e morivano di morti sospette, la pubblica attenzione si concentrò una volta ancora sulla Casa di Vesta e sul comportamento delle sue Sante Figlie. Ad essere accusata di non aver rispettato il giuramento di verginità fu, questa volta, la povera Urbinia ed anche lei conobbe l’orribile sorte di essere sepolta viva in quella fossa infame.
Anche per i due presunti colpevoli non ci fu scampo: processo e condanna a morte.

 

Altre quattro Vestali furono riconosciute colpevoli e condannate, ma tutte preferirono darsi morte piuttosto che affrontare il ludibrio di un processo e una morte orribile: Lanuzia, accusata da Caracalla, che si gettò dal tetto della sua casa; Tuzia che, accusata di aver avuto rapporti con uno schiavo, si trafisse con un pugnale; Gapronia che si strangolò e Opimia che scelse il veleno; Florania, invece, non riuscì a sfuggire alla terribile sorte.

Non mancarono casi di Vestali condannate nonostante la comprovata innocenza, come nel caso della bella e giovane Clodia Leta e la nobile Aurelia, le quali preferirono affrontare il martirio piuttosto che cedere alle profferte libidinose del loro accusatore: l’imperatore Caracalla.

Innocente era anche la bella Cornelia, ai tempi di Domiziano il quale, respinto, l’aveva accusata di aver attentato alla propria virtù con un certo Celere. Non potendo sostenere le accuse in Senato, l’Imperatore l’accusò in un improvvisato tribunale allestito in una casa di campagna senza dare alla povera ragazza possibilità alcuna di discolparsi e difendersi.
Riconosciuta colpevole, l’infelice Cornelia fu condannata e condotta sul luogo del supplizio.
Qui, mentre scendeva i gradini che la portavano in fondo alla fossa, il mantello si impigliò. Il Littore fece l’atto di tendere una mano per aiutarla, ma Cornelia lo respinse per non contaminarsi e dimostrare di possedere ancora la propria virtù e purezza.
Non ancora soddisfatto da questa condanna, Domiziano fece uccidere con le verghe anche il povero Celere, del tutto estraneo a quei fatti.

Singolare é la storia di altre tre infelici: Marzia, Licinia ed Emilia, Vestali ai tempi della Repubblica.
Marzia aveva una relazione amorosa con un giovane di buona famiglia che durava già da qualche tempo quando fu accusata; Lucio Metello, il Pontefice Massimo, si lasciò impietosire dalla loro storia d’amore e graziò la ragazza.
Sempre sotto il suo Pontificato, altre due Vestali, Licinia ed Emilia, vennero meno ai loro voti di castità concedendosi l’una al fratello dell’altra. Scoperte e accusate da uno schiavo, un certo Manius, comparirono davanti al tribunale, ma solo Emilia fu condannata, perché accusata anche di aver intrattenuto relazione illecita con alcuni schiavi per evitare denuncia da parte di quelli.
Il popolo romano, però, assai “bigotto” avremmo detto oggi, riguardo la virtù delle proprie Vestali, si mostrò assai scontento di quelle assoluzioni e pretese un nuovo processo.
Questa volta le tre infelici ragazze vennero tutte condannate e con esse anche quelli che le avevano protette e in qualche modo sostenute.

I dodici Cesari – CAIO GIULIO CESARE

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In quanti hanno scritto di Caio Giulio Cesare? Quanti libri, saggi, romanzi, biografie, tragedie, commedie ed altro?  Non farò il suo ritratto dettagliato, mi limiterò a riportare le mie impressioni e qualche cenno biografico e storico.

Chi era Caio Giulio Cesare? Un grande protagonista della storia con una sfrenata bramosia di onori e ricchezze e un ego gigantesco. Basta citare un esempio: catturato dai pirati, al riscatto di 20 talenti ne aggiunse  altri 30, perchè, disse, ne valeva di più, ma promise che li avrebbe catturati e giustiziati. E mantenne la parola.

Dinamico nelle decisioni e precoce nello sviluppo,  consumò le tappe con sorprendente rapidità.  A soli  sedici anni sposò Cossunzia,  l’anno successivo, a diciassette, divenne Flamine, ossia Sacerdote di Giove, carica assai prestigiosa.  Sempre in quell’anno ripudiò Cossunzia e sposò Cornelia, figlia di Cornelio Cinna, dalla quale ebbe Giulia, l’unica figlia.  Silla, che voleva che divorziasse da Cornelia per sposare la nipote,  ostacolò la sua nomina a  Flamine Diale, ma Cesare non cedette e lasciò Roma, cosicché, gli vennero confiscati tutti i beni, compresa la dote della moglie. Finì, però, per sposare Pompea, nipote di Silla, che ripudierà qualche anno dopo a seguito dello scandalo del fratello Clodio Pulcro, il quale si era furtivamente introdotto, travestito da donna, in un cerimonia religiosa, per sole  donne, in onore di Vesta.

“Sulla moglie di Cesare – disse – non deve essere esserci neppure il sospetto”.

Politicamente ricoprì tutte  le cariche: Flamine, Pontefice, Questore, Edile Curiale, Pontefice Massimo Pretore, Console e Triumviro, nel 60, insieme a Pompeo e Crasso e per rafforzarne legami,  fece sposare a Pompeo la figlia Giulia, ma, la morte  di questa, incrinò i rapporti fra i due.

Fra il 58 e il 51 conquistò le Gallie e nel 46 tornò definitivamente a Roma. Gli furono tributati quattro Trionfi, ma non celebrò quello su Pompeo, perché un romano non doveva mai celebrare  la vittoria su un altro romano.

Dotato di una intelligenza eccezionale, dimostrò di possedere altrettanta audacia, come quella di assumersi la totalità delle decisioni. Esempio, la decisione presa sul Rubicone… presa, come sempre, proprio da solo. Solitaria, veloce e strategica  Niente consiglieri influenti.  E Cesare  è grande stratega  e , come disse di lui Plinio il Vecchio: “…parlo solo dell’intelligenza, della rapidità del suo ingegno, veloce come il vento.”

Cesare aspirava alla Monarchia, ma non sul modello di quella di Roma, bensì sul modello ellenistico. Grande ammiratore ed estimatore di Alessandro, nella sua smisurata ambizione, sognava di emularlo. Sognava di conquistare la terra e diventarne il signore assoluto . Un progetto, però,  che travalica ogni ambizione: egli vuole il consenso popolare: la Vox populi, che lo riconosca come capo.

Egli già godeva  del consenso dei suoi soldati, che già gli riconoscevano suprema autorità; autorità quasi divina. Per discendenza divina.  Faceva risalire le proprie origini per parte della madre ad Anco Marzio e per parte di padre ad Ascanio, figlio di Enea, figlio di Venere.  Imperator! Così i soldati salutavano il loro capo e questo titolo gli attribuirà anche il Senato, quando ne otterrà i consensi.  Dopo ogni vittoria. Lo stesso titolo accordato nei Decreti per rivolgere suppliche agli Dei:  l’imperator che intercedendo presso gli Dei, concedeva benefici e  veniva innalzato sugli altri uomini.

Unico e solo!  In netto contrasto con le aspirazioni dei  repubblicani. Questi, invece, lo chiamavano “Tiranno” e consideravano intollerabile tanto potere nelle sue mani. Fino alla fine del III secolo a.C., uno  dei principi guida della Repubblica era stato quello di non concentrare troppo potere ed autorità nelle mani di un sola  persona,

A Cesare, però, interessava davvero il bene del popolo e voleva risollevare la plebe  dall’inerzia  e dalla povertà ed a tale scopo aveva dato inizio  a grandi opere pubbliche e  fondato colonie romane nei luoghi conquistati. Erano un po’ le idee repubblicane dei Gracchi che egli, pur appartenendo a famiglia nobile e di antica tradizione, aveva sempre sostenuto,  contro aristocrazia e Senato. Come allora, però, anche contro di lui  si levarono feroci opposizioni, sollecitate dal sospetto che  volesse ingraziarsi la plebe per farsi eleggere Re.

Si dedicò, dunque, ad una complessa opera di riforme  anche per controbilanciare la potenza di Pompeo ed appoggiò la Rivolta di Catilina. Durante il processo contro Catilina, pronunciò un discorso in cui sosteneva l’illegalità della pena di morte, proponendo invece  confisca dei beni  ed ergastolo, ossia detenzione  a vita, ma fu accusato di farne parte e per poco non finì giustiziato assieme ai congiurati, mentre Cicerone, che si era scagliato contro la congiura con la famosa Catilinaria, fu nominato “Padre della Patria.”

Dotato di un sicuro senso politico oltre che di insuperabili capacità militari,  Cesare mise in atto il suo progetto di conquiste.  Rivalità di Partiti, discordie tra  famiglie influenti, avevano scosso  la solidità della Repubblica; l’esempio di Silla, infine, insegnava che un capo militare appoggiato dall’esercito, poteva  diventare padrone di Roma. Cercò, dunque, ed ottenne il governo della Gallia  romana, con il preciso intento di conquistare l’intera regione.  Dotato anche di talento letterario, annoterà in un “diario”,  quelle sue imprese: il “De bello gallico” che ancora oggi si studia nelle scuole. Successi militari e successi letterari aumenteranno  il suo prestigio: militare e politico, ma gli guadagnarono la gelosia di Pompeo, rimasto a Roma.

Sia Cesare che Pompeo aspiravano agli stessi onori, ma  erano spinti da diverse aspirazioni e con una diversa concezione della politica: Pompeo, con una concezione repubblicana, che vedeva una alternanza di uomini al potere  e Cesare, invece, con una concezione monarchica che prevedeva  il potere nelle mani di un solo uomo, ma riconosciuto dal popolo e dagli Dei. E qui ricordiamo il discorso pronunciato  ai funerali della zia Giulia, in cui egli  si attribuiva la Maestà degli Dei da cui pretendeva di discendere. Inoltre, mentre Pompeo godeva dell’appoggio del Senato, Cesare godeva di quello dell’esercito.

Pompeo brigò molto contro di lui, riuscendo a mettergli contro il Senato, che gli tolse il governo della Gallia e gli ordinò lo scioglimento delle milizie ed un immediato ritorno a Roma. Cesare, come sappiamo, si rifiutò di ubbidire ed è qui che si inserisce l’episodio del Rubicone. Tornato in Italia con la XIII Legione, raggiunto il fiume Rubicone che segnava il confine della Repubblica e che non si poteva attraversare con le truppe, Cesare l’attraversò e puntò su Roma.  Pompeo fuggì in Grecia per preparare  un nuovo esercito, ma Cesare, rimesso ordine nel Senato, lo inseguì e sconfisse a  Farsalo. Pompeo cercò riparo in Egitto, ma Tolomeo, credendo di  fare cosa gradita a Cesare,  lo fece uccidere.

Tanto era ambizioso, però, quanto generoso, equilibrato e clemente.. Tornato a  Roma,  ne divenne l’unico arbitro  dei destini di tutti. Al  contrario dei predecessori e dei loro comportamenti, Cesare, incline al perdono, perdonò avversari ed oppositori,  molti dei quali richiamò dall’esilio  ed a cui affidò anche incarichi di prestigio. Un uomo equilibrato, Cesare, ma con nelle mani un potere a dismisura: la tribunicia potestas gli permetteva, con diritto di veto, di annullare i senato-consulti e, quindi, di eliminare ogni decisione  contraria alla propria.

Il Senato, però,  dice Dione Cassio, non solo non esercitò alcun controllo su di lui, ma ne rafforzò il potere con eccessive adulazioni e servili decreti.  Troppi decreti. Come quello, appena ricevuta la nomina di Imperator e Liberator, di estenderla ai suoi discendenti,  ponendo. così, le basi per una monarchia ereditaria.

La congiura delle Idi di marzo fu, dunque, una reazione per arrestare un processo che s’era messo in atto.  Congiura di stampo repubblicano, naturalmente. poiché gli innumerevoli onori riconosciuti all’Imperator,  dimostravano che in molti avevano già dimenticato i principi di quella democrazia.

Dictator perpetuus  fu l’ultimo titolo riconosciuto a Cesare. Troppo per  gli oppositori i quali tentarono di arrestarne la minaccia  con ventitrè pugnalate che spensero la vita di Cesare, ma  non impedirono ai suoi successori la creazione di un nuovo regime.

Anche nella morte, sono concordi i racconti, Cesare resta fedele a se stesso e al proprio  carattere: prima reazione è lo stupore, segue una strenua difesa e infine come disse Cassio, una dignitosa rassegnazione:

“Essendosi avvolto nella toga, si lasciò trafiggere dai pugnali. Questa è la versione più diffusa, tuttavia alcuni hanno aggiunto che alla vista di Bruto, che gli menava un gran fendente, gridò: anche tu, figlio mio?”

In molti si chiedono se Cesare si aspettasse quella morte. Pare non tenesse conto dei sogni premonitori della moglie, nè degli avvertimenti dell’indovino Spurinna , nè di altri segnali, come pare che avesse nella Fortuna una fede incondizionata.  Di certo non avrebbe voluto una morte come quella del suo idolo, Alessandro Magno, morto per un febbre malarica.

 

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I MONACI-GUERRIERI

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Dopo la prima Crociata e cioè, la conquista dei Luoghi Sacri, apparve subito chiaro a tutti che l’impresa non era conclusa, ma appena iniziata. Si trattava, ora, di difendere quella conquista. Appelli e richieste d’aiuto e rinforzi, partirono numerose  da Gerusalemme  e le spedizioni in Terra Santa si moltiplicarono immediatamente. Si può dire, anzi, che furono così numerose, benchè, ufficialmente, i libri di Storia ne riconoscano solo sei o sette, che si trattò di un’unica lunghissima Crociata.

A rispondere a questi appelli i primi furono i Genovesi, già nel 1097; seguirono i Pisani.  Il loro apporto fu estremamente importante: oltre alle operazioni militari, infatti, si occuparono anche di rifornimenti di viveri e legname. Più tardi arrivarono anche i Veneziani, i cui interessi economici, però, erano concentrati soprattutto in Egitto, Siria e Bisanzio.

Nelle città conquistate sorsero quartieri occidentali che divennero ben presto centri di attività economiche, commerciali e di trasporto. Soprattutto il trasporto dei pellegrini, dall’afflusso incessante, che, in qualche modo bisognava guidare e proteggere. Gli appelli, dunque, per  ottenere aiuti e rinforzi, divennero sempre più numerosi e pressanti. Questo, sia perché i protagonisti di quella prima spedizione,  i grandi guerrieri-crociati, andavano sempre più assottigliando di numero per cause varie, sia perché , l’impresa aveva bisogno di nuove risorse.

Fu posta in atto una grande propaganda, di carattere religioso ed economico, che produsse il miracolo: un esercito di pellegrini, mosso da necessità diverse, spirituali e materiali, attraversò il mare per raggiungere l’Oriente. Ne nacque un grande  affare  che    trasformò in ricchi armatori, i barcaioli veneziani, pisani e genovesi.

Venne a crearsi, però, anche una figura di pellegrino assai particolare con un compito ben preciso: occuparsi dei poveri, curare gli ammalati, proteggere i pellegrini dagli attacchi dei saraceni  e difendere ospedali e roccaforti cristiane: erano nati gli Ordini Religiosi militari: i Cavalieri di Malta, i Cavalieri di San Lazzaro, i Cavalieri di Santa Maria o Cavalieri Teutonici, tutti o quasi, provenienti dalla Germania.

Anche gli ordini ospedalieri si videro ben presto costretti a difendersi e nacque, così, l’Ordine dei Cavalieri del Tempio, o Cavalieri Templari, con il compito di difendere con le armi sia i pellegrini che i luoghi santi.

Erano nati i Monaci-Guerrieri.

La difesa dei Luoghi Santi, era, dunque, assicurata?

Non esattamente.

Che cosa stava accadendo?

Facciamo qualche passo indietro e torniamo al 1099 ed alla conquista crociata della Città Santa e del Santo Sepolcro. Su quale testa poggiava la corona di Gerusalemme?

Nessuno dei principi conquistatori la volle sulla propria: lì, a Gerusalemme. si diceva, il Crito aveva ricevuto una corona di spine, non di pietre preziose.  Si scelse il meno potente, anche  se a noi  assai noto,  tra i principi conquistatori: Goffredo da Buglione. Non lo si fece Re,  bensì “Advocatus”, ossia Difensore del Santo Sepolcro.

Goffredo morì l’anno successivo, ma il fratello Baldovino, che gli succedette nell’incarico, non più animato da tali nobili sentimenti, si fece incoronare Re di Gerusalemme.

Iniziarono i dissidi. Sempre più profondi.  E iniziò la controffensiva musulmana, favorita proprio da quelle discordie interne.  Iniziò anche l’espansione dei campi di battaglia dei Crociati: non più soltanto i Crociati contro i Musulmani di Gerusalemme, ma anche Crociati contro i Mori di Spagna,  controi Pagani dei Paesi balcanici e perfino  Crociati contro Bisanzio.

Era la Quarta Crociata.Era stata indetta da  papa Innocenzo III, nel 1198. Era diretta in Terra Santa contro i musulmani, ma si concluse con il saccheggio di Costantinopoli,da parte dei crociati, soprattutto veneziani, che profanarono monasteri e rubarono in chiese e case private, portando alla spartizione dell’Impero Bizantino ed alla costituzione di un Impero Latino; l’imperatore Alessio IV Angelo e il suo successore Alessio V, che in tutta la vicenda  avevano avuto comportamenti piuttosto equivoci,  furono, il primo strangolato e il secondo costretto all’esilio.
Non solo contro il simbolo della mezzaluna, dunque, si alzava lo scudo crociato, ma aveva preso a levarsi  anche contro il simbolo della croce.

Le crociate che seguirono furono davvero tante ma non tutte in Terra Santa: contro i Catari, gli Scomunicati , I Ghibellini e poi, contro Federico II, Manfredi di Svevia, i principi Colonna….

Questo uso della Croce contro i Crociati,  più  il peso in termini economici (attraverso tasse e indulgenze), finì inevitabilmente per creare un sentimento anticrociata  sia  contro il papa,  che  contro i Crociati, ma anche  contro   gli Ordini Religiosi-Militari ossia i MONACI – GUERRIERI.

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La spada e la croce… pellegrini in Terra Santa

220px-Godefroy_de_Bouillon         L’ imperatore Alessio Comeno che discute con Goffredo da Buglione.

Si legge su tutti i libri di Storia che l’ispirato appello  di papa Urbano II a liberare il Santo Sepolcro  dalla presenza musulmana e di troncare le persecuzioni contro i cristiani,  abbia agito come una parola d’ordine: mobilitò il vecchio continente e spinse verso Oriente una gran folla di pellegrini.

Ma fu proprio così?  Forse non proprio.

Gli appelli del papa e quelli dei numerosissimi predicatori itineranti che incitavano a prendere spada e croce e partire, contribuirono a far nascere l’dea di una spedizione in Oriente, ma non furono il fattore dominante…  stiamo parlando della prima Crociata, per intenderci.  Oltre a questi, ci furono altri fattori, dettati dalla situazione sociale, politica e, naturalmente, religiosa.

Da secoli, i cristiani si recavano in Terra Santa per venerare il Santo Sepolcro e non  erano certamente oggetto di persecuzione da parte dei musulmani i quali, dietro pagamento di un congruo tributo, li  lasciavano in pace; fu perfino permesso loro la costruzione di diversi  ospedali.

Che cosa, dunque, cambiò quello scenario? Osserviamo un po’ la situazione storica e politica di quei Paesi. Intanto, da tempo, cristiani ed islamici era diventati irriducibili  avversari:  le conquiste arabe in Spagna, Sicilia, Francia, avevano prodotto solchi profondi e così gli attacchi dei pirati saraceni a Genova, Pisa, in Sardegna e, quando i Normanni iniziarono la conquista della Sicilia, esplose quel clima anti-islamico che  non era solo religioso, ma anche sociale e politico.

Qual era la situazione politica?

Era l’anno  1095 e l’Impero Romano d’Oriente aveva appena subito un brutto colpo: aveva perduto i possedimenti asiatici ad opera dei Turchi. L’imperatore  Alessio Comneno, nel timore di perdere anche Costantinopoli, lanciò un appello a papa Urbano II  ed a tutta la cristianità occidentale.

Ravvisando in questa, l’occasione di riunire le due Chiese, quella Orientale e quella Occidentale, divise dallo Scisma del 1054, il Papa la colse  al volo e lanciò il suo appello al mondo criatiano, Franchi e Normanni in particolare.

Il 27 novembre si concluse a Cletmont un Concilio presieduto dal Papa, nel quale si erano discusse le motivazioni di una spedizione militare e religiosa in Terra Santa, che portasse alla liberazione dei Luoghi Sacri  dal dominio dei Turchi, ma che fosse condotta nello spirito di un principio riformatore della Chiesa. In altre parole, invitava ad agire secondo principi di umiltà e penitenza cristiana, proprio come quella croce cucita sulla veste,  stava a sottolineare.

Furono molti i Cavalieri che risposero all’appello, nobili e feudatari. Ma  non furono essi i primi  partire.  A precederli, fu una massa di gente turbolenta e disorganizzata: mendicanti, miserabili e contadini privi di mezzi di sostentamento, in cerca di fortuna. Una massa che si dispose subito a partire, incalzata dalla miseria e infervorata dai tanti, tantissimi predicatori, quasi sempre monaci,  che passavano di città in città, villaggio in villaggio, borgo in borgo, mercato in mercato.

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A guidarli erano spesso “cavalieri” senza arte né mezzi,  emarginati e poveri in canna. Un ottimo esempio lo ha dato il cinema con la figura di Brancaleone. Masse di disperati che lungo il cammino perdevano principi ed ideali per abbandonarsi ad ogni tipo di sopruso  ai dannddelle popolazioni e finedno, spesso, per essere a loro volta massacrati dai Turchi.

Al contrario, i Cavalieri si concessero tutto il tempo necessario per organizzare la spedizione. Partirono in centomila circa, l’autunno dell’anno dopo, ma non tutti insieme, bensì, divisi in tre scaglioni, attraverso tre vie diverse e sotto la guida di diversi comandanti. I primi furono Roberto, figlio di Guglielmo il Conquistatore e Roberto di Fiandre, in partenza da Lione, seguì Roberto il Guiscardo da Taranto e infine partirono il vescovo  Ademaro di Monteil e Raimondo di Tolosa,  sempre da Lione.

Le truppe marciarono su Costantinopoli per via terra lungo il litorale balcanico e infine, guidate da Goffredo da Buglione, giunsero a Costantinopoli, passando per Ungheria, Romania e Bulgaria.

A Costantinopoli l’incontro con l’imperatore Alessio Comneno.

Alessio Comneno, Imperatore di Bisanzio era un uomo accorto e diplomatico:              sventato l’attacco alla capitale ad opera dei Turchi, aveva stretto pacifici rapporti con i califfi di Bagdad e del Cairo e quello voleva, non era proprio una guerra all’Islam. Egli voleva solamente neutralizzare i Turchi,  perciò, l’arrivo di Goffredo da Buglione non lo fece completamente contento: voleva servirsi delle truppe, ma non vedeva proprio di buon occhio tutta quella folla di pellegrini al  loro seguito . Soprattutto, come si è già detto, non voleva una guerra all’Islam.

Eta il 1099

Quale fu l’epilgo di quella avventura durata 3 annii?

Alla vista delle sacre mura di Gerusalemme, un isterismo collettivo colse quasi tutti: cavalieri e pellegrini: lacrime e preghiere, cui fecero seguito processioni e penitenze.

Seguì l’attacco. Fu brevissimo. Durò solamente tre giorni, ma fu tremendo e feroce.

I Cavalieri,  che solo tre giorni prima, davanti alle mura della Città Santa  avevano pianto di emozione e devozione, si abbandonarono agli istinti più rabbiosi e incontrollabili. Fu un massacro di inaudita violenza ed enorme spargimento di sangue: proprio quello che l’imperatore Alessio Comneno avrebbe voluto  scongiurare.  Episodi di  violenza e crudeltà  cieca, messi in atto contro una popolazione quasi inerme: non solo  musulmani, anche ebrei e perfino cristiani scambiati per nemici a causa dell’abbigliamento.

Conclusione! I Cavalieri, i Liberatori del Santo Sepolcro si erano trasformati in implacabili predoni armati di Croci e stavano per aprire un Capitolo  assai particolare della Storia.

IL MUSEO EGIZIO di TORINO

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I racconti dei viaggiatori, i tanti reperti che continuavano ad arrivare  nelle ricche dimore di  collezionisti e studiosi, quel fenomeno culturale conosciuto con il nome di Orientalismo e la spedizione napoleonica in Egitto, crearono un eccezionale interesse per questa cultura. Napoleone, grande estimatore di antichità, si prefiggeva lo studio e la catalogazione di tutti i monumenti distribuiti sul territorio.

Inizialmente fu solo la ricerca e la caccia all’oggetto bello, raro e prezioso, ma all’inizio del nostro secolo la ricerca divenne più consapevole:un vero studio di  quella straordinaria civiltà attraverso le testimonianze del suo passato.

Il Museo di Torino ebbe una parte importantissima in quella ricerca. Fu il primo Museo di egittologia al mondo; seguirono poi quello del Louvre, Berlino, Londra e  anche de Il Cairo.

Nacque nel 1824 , per merito di Carlo Felice di Savoia , grande studioso ed estimatore di reperti antichi , il quale acquistò una prestigiosa collezione di reperti dal console di Francia in Egitto, Bernardino Drovetti. Altri reperti, donati sempre dalla Casa Savoia arricchirono presto quella collezione , poi arrivarono  altre collezioni. Importanti quelle dell’archeologo Ernesto Schiapparelli, direttore del Museo, tra il 1900 -1920, provenienti dai materiali dei suoi stessi scavi in Egitto.

Importantissimo anche il dono, da parte  dell’Egitto al Museo di Torino, del Tempietto di Ellesiia, in riconoscimento dello straordinario lavoro di salvataggio dei monumenti, da parte della equipe italiana, dopo la costruzione della diga di Assuan che minacciavano di sommergere con le sue acque quelle meraviglie del passato.

La ricchezza e l’importanza dei tanti reperti presenti al Museo  di Torino è tale da costituire con la loro esposizione, una straordinaria lettura  della storia e degli usi e costumi di questo popolo unico e particolare.

“AQUILINUS”

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Come sempre, c’era grande animazione in giro a quell’ora del mattino. Marco Valerio, l’indomani, stava tornando a casa dal Campo Marzio dopo una visita ai suoi uomini.

Sciami di ragazzini si muovevano in gruppi di cinque o sei, come stormi di uccelli in migrazione, spostandosi qua e là per i vicoli.

Uno di loro lo fissò con insistenza e lo urtò all’altezza della spalla, proprio mentre smontava di sella, davanti a casa. Si accorse subito che la phalera  attaccata al petto sul lato sinistro della lorica era sparita. Affidate le redini del cavallo a uno schiavo, si girò; il ladruncolo andava  per la sua strada, ostentando  tranquillità.

Marco lo raggiunse e l’afferrò per il cordino di pelle che gli assicurava al collo la bulla  infantile e gli fece fare una piroetta.

“No! No! – disse in tono ironico – Non è la tattica giusta! Il tocco è leggero e veloce, sì… ma va perfezionato con un po’ più di morbidezza. E sorridi. Un sorriso distoglie sempre l’attenzione…”

L’altro ascoltava impassibile.

“Guarda in faccia la preda, ma non portare mai lo sguardo su ciò che vuoi portarle via…- riprese – Ed ora, tira fuori la mia phalera.”

“Quale  phalera?” fece il piccolo, per tutta risposta, abbozzando un’espressione smarrita e innocente.

“Quella che nascondi sotto gli stracci. Quella borchia mi è costata questa ferita. – Marco, che in altra circostanza lo avrebbe mandato a gambe levate, si limitò a mostrargli la vistosa cicatrice al braccio sinistro – Come ti chiami?” chiese.

“Mi chiamo Vinicio. – rispose quello con una scrollatina di spalle e due occhietti furbi sulla faccia sporca, accesi come faretti – Ma anche Valerio o Giulio… perciò, tribuno, chiamami come ti pare.”

Marco lo ascoltava esterrefatto e ammirato insieme: quella piccola canaglia non mostrava il minimo segno di rispetto o timore, il timbro della voce era sfacciato e lo sguardo disincantato.

“… ma gli amici mi chiamano Aquilinus – lo sentì riprendere – e ti concedo di chiamarmi così! Tra uccelli di rapina ci si comprende.”

“Ah.ah.ah… – Marco non riuscì proprio a trattenere una sonora risata – Non sono tuo amico e…”

“Vuoi consegnarmi alle guardie?” l’interruppe quello.

“E’ quello che meriteresti, insieme ad una buona dose di frustate… ma oggi sono magnanimo e mi basta riavere la mia phalera… Uccelli di rapina… Che mi tocca sentire… – l’altro tese la borchia d’oro – Vai, ora. Corri… prima che ci ripensi… Uccelli di rapina!”

Aquilinus si dileguò immediatamente.

“Uccelli di rapina! – continuava a ripetere sottovoce il giovane –Ah.ah.ah… se è vero! Quella piccola canaglia ha proprio ragione! Quella volta tra i Rostri…”

Quanto tempo era passato? Quanti anni? Era ancora ragazzo e il tempo per lasciare la bulla infantile era ancora lontano. Si aggiravano, ricordò, tra le viuzze del mercato, lui e quella banda di oziosi e prepotenti, vestiti come servi, ghignando e sbeffeggiando. Chi erano i compagni di quelle scorribande? Otone, Silio, Metello e… e Cesare, naturalmente. Sua madre, ricordò, gli aveva proibito quella licenziosa compagnia. Si lasciò andare in un sospiro, poi si girò verso lo schiavo atriense.

(continua)

brano tratto da “LA DECIMA LEGIONE”

IGINO ANGELETTI – AUTORE

 

Biografia di Igino Angeletti

 

 

 

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Igino Angeletti nasce il 19 dicembre del 1962 a Poli, piccolo paese medievale a pochi chilometri da Roma, e si trasferisce nella Capitale ancora bambino.

All’inizio del 1980 inizia ad avventurarsi tra i versi, ma, soprattutto, a ricercare il senso nascosto tra gli spazi, apparentemente vuoti, che circolano tra le parole. Ha sempre visto nelle pause, e nei silenzi, le urla più potenti, quelle che emergono da gioie e dolori profondi, quelle che sfuggono dalle cicatrici dell’anima … l’essenza delle cose, e delle relazioni, sta nella potenza dei sentimenti e delle emozioni, spesso sottintese, che le permeano o le generano!

Conseguita la maturità e la formazione militare alla Scuola di Fanteria, parte alla volta di Trieste come Ufficiale dell’Esercito nel momento “caldo” del dopo Tito, con le problematiche che una zona di confine può generare in un momento di forte instabilità. La preparazione specifica ricevuta per il conflitto nel Libano e il dramma del terremoto di Sulmona, si sommano al bagaglio di emozioni che troveranno, nella sua innata empatia, una cassa di risonanza accogliente.

Esperienze e tragedie che lasceranno segni indelebili nell’anima di chi le vive con la porta del cuore aperta, con la consapevolezza che diverranno fedeli compagni di viaggio e, nel tempo, si trasformeranno in strumenti e cardini con i quali cogliere e veicolare le emozioni che, recepite dall’ambiente circostante, si radicano e fermentano nel tino accogliente della sua sensibilità.

Dopo l’esperienza nell’Esercito, torna a Roma e si dedica a numerose e variegate attività lavorative, con una forte prevalenza nell’ambito della Security aziendale che lo porteranno, ormai da qualche decennio, ad operare, come Security Manager, in una primaria multinazionale chimica tedesca.

Dopo un paio di periodi di pausa, più o meno lunghi, nell’ambito poetico, durante i quali ha curato la propria formazione ed evoluzione professionale, dal 2010 è tornato a scrivere con fertile e costante assiduità.

L’antologia “Navigare 78”, curata e pubblicata, nel mese di marzo 2017, dalla Casa Editrice Pagine (Poeti Poesia), è il primo volume edito, seguito dall’uscita, sia in formato e-book che cartaceo, di una sua silloge poetica dal titolo “Le chiavi di pietra”, edita da Youcanprint. Alcune sue poesie sono state selezionate ed inserite nell’antologia poetica “Dipthycha 4”, la cui uscita è prevista entro fine anno, ideata e curata dallo scrittore e poeta Emanuele Marcuccio, il cui ricavato sarà devoluto in beneficienza a favore delle vittime della serie di terremoti che si sono succeduti, da quello di Amatrice in poi, nel nostro martoriato centro Italia. Il ricavato dei primi tre volumi della collana “Dipthycha” è stato devoluto all’AISM (Associazione Italiana Sclerosi Multipla). Per “Dipthycha 5”, in programmazione per il 2018, sono già state selezionate altre sue poesie.

Attualmente, insieme alla cara amica ed eccellente fotografa Roberta Musino, è impegnato nella progettazione di una mostra foto-poetica che si terrà, probabilmente, nel mese di settembre 2017 a Tivoli, cittadina a forte connotazione storico-culturale nei pressi di Roma. Nella mostra, fotografie e poesie si uniranno trovando ragione le une nelle altre, tentando di chiudere il cerchio emotivo-sensoriale che è strumento di lettura e scrittura, sia in immagini che in versi, per chi ha occhi e cuore per vedere ed elaborare.

Attualmente sta lavorando alla sua undicesima silloge poetica, è presente su alcuni social network: su LinkedIn, come membro di alcuni Gruppi di scrittura creativa, mentre su Facebook con tre sue pagine di poesie, in alcuni gruppi culturali e, come Editor, nella pagina ufficiale dell’Empatismo – Nuovo Movimento Poetico, gruppo nato dalla splendida visione di due notevoli poetesse e amiche, Giusy Tolomeo e Hoseki Vannini, per condividere, esplorare e divulgare ogni aspetto della vita, nel nostro pensare ed agire, che si possa ricondurre all’empatia fra le genti. Il manifesto dell’Empatismo è stato realizzato, con maestria impeccabile e logica di cuore ineccepibile, dal caro amico e grande poeta Emanuele Marcuccio.

È felicemente sposato e padre di un fantastico ragazzo; è appassionato di poesia, lettura, musica, disegno, interior designer, bricolage, restauro di mobili, cucina … e, soprattutto, rapporti umani.