“Le donne dei Cesari – CALPURNIA PISONE, moglie di GIULIO CESARE” Maria Pace

calpurnia moglie di cesare

18  anni,  lei…   41, lui.

Di ottima famiglia, lei… di buona famiglia lui, più un ego gigantesco.

Calpurnia Pisone è il nome di lei. Gaio Giulio Cesare, quello di lui ed è l’anno 59 a.C.

Lei  ha l’età di sua figlia Giulia.  La dolce, tenera Giulia.  La più bella e la più amata delle donne della casa Giulia, rimasta orfana di madre in tenera età ed educata dalla nonna, donna integerrima e di sani principii. Amatissima da papà che,  però, ne fa una pedina nelle manovre politiche per raggiungere il Regnum e il potere: Cesare la dà in sposa a Pompeo. Una pedina nella grande scacchiera della politica, dunque.  Come, d’altronde, è anche la bella e  giovane Calpurnia.

Chissà se le due ragazze  hanno simpatizzato mai,  se hanno  creato mai  un rapporto di solidarietà… Sicuramente no!

Il destino di Giulia è segnato: morirà di parto; Calpurnia, invece diventerà presto la first lady di Roma, ma sempre restando nell’ombra, discreta e riservata.

Lei è una giovane sposa, consapevole  e  decisa.. L’eco dello scandalo dell’altra moglie di Cesare, quella che lui  ha  ripudiato, è ancora presente.

“La moglie di Cesare deve essere al di sopra di ogni sospetto.”

Chi non ricorda questa celeberrima frase che ha attraversato i secoli? Certamente non la dimenticherà mai la bella Calpurnia, la quale ne farà tesoro per tutta la sua esistenza.

Di che cosa si trattava? Di uno scandalo dai risvolti grotteschi. Durante un rituale per sole donne, in onore della dea Bona,  che si svolgeva nella casa di Cesare, Clodio, l’amante di Pompea, moglie di Cesare, si introdusse furtivamente in casa, travestito da flautista, per raggiungere la donna. Scoperto, riuscì  fuggire, ma la notizia fece subito il giro della città. La reazione di Cesare fu immediata: ripudiò la moglie. Al processo, però,  non volle deporre contro Clodio e dichiarò di essere convinto della innocenza della moglie.   Ai giudici che gli chiesero perché, allora, avesse divorziato, rispose con la famosa frase  che abbiamo riportato.

Già quello stesso giorno, però, il giorno del suo matrimonio, la giovane sposina prendeva coscienza di quello che sarebbe stato il suo ruolo al fianco dell’uomo più potente di Roma.  Proprio quel giorno, infatti, Cesare aveva inviato a Servilia, l’amante storica, una preziosissima perla dal valore inestimabile, per compensarla della rinuncia  o, forse, per rassicurarla.

Dopo il divorzio da Pompea,  Cesare deve essersi guardato intorno alla ricerca di una moglie adeguata e questa  non poteva essere Servilia che, con i suoi quaranta anni non poteva dargli il figlio maschio tanto desiderato.

Già!  Cesare, più di ogni cosa, in quel momento, desiderava un erede e  Servilia non poteva accontentarlo, ma la giovane Calpurnia Pisone, su cui era caduta la sua scelta, invece, sì!.

Chi era Calpurnia Pisone?

Era la figlia del  senatore Calpurnio Pisone,  uomo potente,  a cui, quando concesse sua figlia al grande condottiero,  mancava solo il Consolato per completare l’intero cursus honorum e il  Consolato  arrivò puntuale l’anno seguente. I Pisone erano una delle famiglie più potenti e antiche dell’aristocrazia romana: la gens Calpurnia rivendicava la discendenza addirittura da Numa Pompilio.

Di Calpurnia, del suo aspetto fisico, poco si sa; non ci sono statue, né monete, né altre immagini. Che, però, fosse di bell’aspetto lo si deduce da un ritratto giunto fortunatamente fino a noi. Bella, giovane, dolce , discreta e riservata e, come tutte le ragazze della buona società romana, pienamente consapevole che il solo scopo della sua vita dovesse essere la cura della casa e dei figli.

E sapeva bene, Calpurnia, come lo sapevano tutte le donne dell’epoca, che, in caso di mancanza di figli, era sempre la donna quella sterile e mai il marito che, per quella “mancanza”, poteva chiedere il divorzio.

Nei quindici anni in cui fu la moglie dell’uomo più potente di Roma, Calpurnia  non riuscì a dargli quel figlio tanto desiderato, ma  Cesare non chiese mai il divorzio.

In tanti, invece, probabilmente   se l’spettavano: quello non era stato davvero un matrimonio d’amore, e forse, la stessa Calpurnia  si aspettava, un giorno o l’altro,  di ricevere il  libello del divorzio.

Ciò non accadde mai.

Qualcosa, forse, era subentrato nel  loro rapporto: il rispetto e l’affetto.

Calpurnia era una donna virtuosa e fedele e Cesare di questo era  consapevole.  Se così non fosse stato,  l’avrebbe certamente ripudiata, come aveva fatto con  Pompea. Cesare lo sapeva perfettamente  e  sapeva che  tale sarebbe rimasta,  nei lunghissimi periodi di assenza…. in attesa, nella loro casa, la Domus Publica, che era la casa del Pontefice Massimo, carica che egli ricopriva dal 63 a.C. In una Roma in cui le donne… proprio quelle sposate…esibivano amanti, lei restava fedele al marito e questa era davvero una cosa rara ed apprezzabile.

Se Calpurnia era donna fedele,  non altrettanto poteva dirsi di suo marito. Cesare doveva farsi perdonare davvero tanto  e Calpurnia doveva essere  una donna quanto mai piena di pazienza per resistere accanto ad un uomo la cui reputazione , secondo Svetonio , era quella di un libertino. Ecco quello che riporta: due versi che i suoi soldati cantavano durante il suo Trionfo a Roma

“Cittadini occhio alle mogli.

Viene il calvo adultero;

Ha fottuto l’oro in Gallia,

qui lo prendi a prestito”

Una reputazione che Cesare si era guadagnato in dieci anni di  vita di accampamento.

Numerose furono le relazioni extra coniugali di Cesare; molte le donne per cui Calpurnia doveva perdonarlo e Svetonio fa i nomi di alcune nobildonne già sposate: Postumia, moglie di Servio Sulpicio, Lolla, moglie di Aulo Gabinio,  e molte altre e soprattutto Servilia, madre di Marco Bruto.

La relazione che dovette maggiormente  ferirla, però, dove essere stata  quella con la regina Cleopatra che Cesare fece venire a Roma.

Una relazione, in verità,  su cui  Dione Cassio deve aver  esagerato, essendo, in fondo, Cleopatra, un ostaggio di Roma. Cesare la frequentava, è vero, ma con molta discrezione e non lo faceva di certo per l’opinione pubblica, bensì per rispetto nei confronti della moglie  e questo non doveva di certo piacere alla ambiziosa regina egiziana.

Si dice che da quella relazione nacque un figlio e che Cesare acconsentì che portasse il suo nome: Cesarione, ma si sa anche  che egli non lo riconobbe mai come suo.

Calpurnia accettò, dunque, di dividere il marito con le numerose amanti, come facevano tutte le mogli della  nobiltà dell’epoca. Senza lamentarsi. E forse, senza neppure darvi troppo peso…. Forse!

Era la consuetudine. Erano le tradizioni. La moglie era una cosa seria… per il divertimento c’erano le altre.

Una vita, quella di Calpurnia,  trascorsa con discrezione. Quasi nell’ombra. Per questo, forse, dopo la morte di Cesare,  l’accolse  il silenzio dell’oblio.

La morte di Cesare!

L’unica volta, forse, in cui questa donna, ombra silenziosa del marito, fa sentire la sua voce. Più precisamente si tratta di un sogno e Plutarco così scrive:

“… mentre riposava accanto alla moglie, porte e finestre si spalancarono  e il pinnacolo che sormontava la casa crollava, proprio quando Calpurnia stava sognando di tenerlo fra le braccia con la gola squarciata. Fatto giorno, pregò il marito di non uscire di casa. Di fronte all’atteggiamento deciso di lei, anche Cesare si scosse e pensò che dovesse congedare il Senato, ma Decimo Bruto, di cui egli si fidava molto, lo convinse a non lasciarsi impressionare dai sogni di una donna e di recarsi all’appuntamento… Cosa avrebbero pensato di lui? disse e ripeté, fino a quando non riuscì a convincerlo ad uscire.”

Calpurnia fece di tutto per convincerlo, invece, a restare; giunse perfino ad inventarsi un malore e Cesare fu tentato di darle ascolto. E  le avrebbe dato ascolto, se Decimo Bruto non fosse stato ancora più convincente.  Cesare lo seguì. Seguì l’uomo di cui si fidava ciecamente, ignorando che fosse uno dei congiurati.

Dopo la morte di Cesare,  di Calpurnia si perdono le tracce. E’ alquanto naturale per lei, vissuta nell’ombra, rientrarvi e restarci per sempre. Di lei non si sa più nulla, neppure quale  sia stata  la reazione di fronte a quella morte.

Si sa che cercò appoggio in Marco Antonio, ma forse,  quella non fu una  buona idea. L’operato di Marco Antonio  doveva essere calcolato, dal momento che riuscì a farsi consegnare non solo tutti gli incartamenti e documenti di Cesare, ma anche tutto il suo denaro: 4  mila talenti. Una vera fortuna.

Plutarco dirà apertamente che Calpurnia si era mostrata poco accorta:

“… non mostrando certamente molto giudizio!”

Appiano si spinge ancora oltre, dicendo apertamente che Antonio si è appropriato di tutto, approfittando della:

“debolezza di una vedova straziata dalla perdita del marito riportato a casa ucciso”

 

 

 

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“ALLA CORTE di NERONE”

 

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Tornò a guardare Cesare.

La voce era bassa, ben modulata ed a tratti tragica e drammatica.

Recitava con speditezza, ma non di corsa. Con pause e interruzioni ben studiate, capaci di allentare o aumentare  la stretta della dialettica; gesti e mimica erano calcolati e dosati, come un  artista di professione. Scuoteva la testa per raccogliere fiato e si sollevava sulla punta dei piedi per accompagnare il ritmo delle note.

La folla applaudiva e l’entusiasmo pareva sincero. E se così non fosse stato, se così non fosse apparso, c’erano gli Augustiani, sempre vigili e sempre in piedi, a prendere nota degli applausi o degli sbadigli.  C’erano perfino i perfezionisti dell’applauso, fatti arrivare da Corinto e da Alessandria d’Egitto.

Marco continuò a fissare il suo imperatore. Guardava il suo volto dal sembiante pacato, quasi disposto alla bonomia: come sempre, quando si esibiva.  Quei piccoli scatti, però, mal trattenuti e quasi regolari, quei gesti spigolosi e rigidi, per chi lo conosceva bene, erano indizi di carattere irascibile e con attitudine alla finzione.

Marco Valerio conosceva bene Cesare.

“Finzione scenica!” pensava, con indulgenza.

Sapeva che Cesare era rientrato da poco a Roma dal suo viaggio in Grecia e a Napoli, dove s’era esibito come un vero artista e dove lo avevano raggiunto le notizie della rivolta di Giulio Vindice, il Legato della Gallia, che lo aveva costretto a rientrare precipitosamente  a Roma.

“Finzione scenica!” continuava a ripetersi, ma anch’egli applaudiva e cercava su quel sembiante eccitato d’estasi, le tristi inclinazioni di cui lo sapeva accusato: voci, giunte in Giudea, di stravaganze e dissolutezze.

Egli ricordava, invece, il principe inviso a Senato e Ceto Equestre per la predilezione verso il popolo. Di lui ricordava il sovrano che il giorno dell’incoronazione aveva fatto distribuire grano alla plebe, abolire o diminuire tasse, assegnare appannaggi.

 

Cercò il corteggio di filosofi e poeti che era stata la sua corte: gli animatori delle Neroniae, le feste quinquennali di musica e poesia.

Non c’era quasi più nessuno. Le facce conosciute, fra quelle che lo circondavano, ora, erano poche. Molte, invece, quelle nuove, assurte da chissà quali gradi, pensò, ai favori della corte.

Invano cercò la figura severa di Seneca, quella elegante di Petronio. Non c’era Burro e nemmeno Trasea. Non c’era Poppea.

Non mancava, invece, quell’anima nera di Caio Ofonio Tigellino, Prefetto dei Pretoriani, la potente e temibile Guardia Imperiale.

Elegante e togato, Tigellino portava sul volto l’impronta della tendenza alla corruzione e al malcostume, vizi che ne avevano fatto il personaggio più chiacchierato della corte, che pur era  frequentata da gente priva di ogni morale. Nerone lo aveva imposto alle Coorti Pretoriae, nel 61, come comandante assieme a Rufo, in sostituzione di Seneca e Burro. Una vita politica assai tempestosa, quella di Tigellino, agrigentino di bassa estrazione, arrivato, però, a ricoprire le cariche più importanti.

Al suo fianco Marco vide Annio Fausto.

Piccolo e grasso, viso rubicondo ed espressione innocente, nessuno gli avrebbe dato mai del delatore, se non fosse che era proprio quella l’attività cui si dedicava con maggior fortuna; l’altra attività era farsi invitare a banchetti da amici e conoscenti. Di lui si diceva che, terminato il pranzo da Tizio, era pronto a buttarsi sulla cena  di Caio, intanto che da Sempronio si spremeva le meningi  su come fregare tutti e tre!

 

Vicino ai due sedeva Silone, centurione esente dal servizio per meriti di denaro: una categoria che, da buon legionario combattente, Marco disprezzava con tutte le forze.

L’esenzione dal servizio era riconosciuta per meriti e come tale anche apprezzata, ma negli ultimi tempi quel privilegio era concesso anche contro pagamento di somme raccolte taglieggiando i soldati: troppo, per l’innato senso di giustizia e lo spirito di disciplina che caratterizzavano il tribuno Flaviano.

Al fianco di Silone, Marco  vide il mago Tolomeo, che riconobbe dalla veste prima ancora che dal nome. Era l’unico a non indossare tunica e clamide, ma uno schebiu intorno al collo, tipico collare egizio, e una schendit: triangolo trattenuto intorno ai fianchi da un complicato nodo. In testa esibiva una nemes, il copricapo triangolare, a fasce gialle e blu; lunghi orecchini ai lobi forati delle orecchie e larghi bracciali ai polsi completavano il suo abbigliamento. Gli occhi, infine, erano bistrati di nero e allungati verso le tempia e le palpebre erano colorate di verde malachite.

Marco lo vedeva   per la prima volta,    ma sapeva     che Cesare ne aveva fatto la sua ombra e lo teneva in grande considerazione. Tolomeo era diventato il suo vates preferito e Cesare non avrebbe fatto un sol passo né mosso un dito senza prima consultarlo.

Nerone era molto superstizioso. Come la quasi totalità dei suoi contemporanei.

Anche Marco Valerio, in una certa misura, lo era.

 

Fra i volti che invece conosceva bene, Marco riconobbe quelli di Faone, Egialo ed Epafrodito: tutti affidabili, competenti ed efficienti Amministratori Pubblici.

Accanto ad Epafrodito scorse una donna dalla giunonica bellezza. Stava  appoggiata ad una balaustra, ammantata di seta trasparente che nulla lasciava all’immaginazione. La bocca sensuale era ingrandita e accesa dal rosso del minio e gli occhi erano truccati col nero dell’antimonio e allungati verso le tempie. Era letteralmente coperta di gioielli. In testa portava una parrucca di capelli veri. Biondi. Tagliati, forse,  a qualche schiava germanica. Composti in treccine raccolte a crocchia, erano trattenuti sulla nuca; una ghirlanda di foglioline d’oro faceva risaltare i riccioli sapientemente disposti sulla fronte.

Anche alcuni di quei gioielli erano stati sicuramente predati a qualche regina lontana. Erano preziosi e di squisita fattura. Soprattutto il collier, lungo ben oltre i due metri e mezzo, che le avvolgeva collo, busto e vita. Altre collane le appesantivano braccia e caviglie: maglie d’oro che la facevano assomigliare a un idolo luccicante che mandava bagliori al più piccolo movimento. Un idolo annoiato, a giudicare dalla piega delle labbra e dallo sguardo assente e svagato.

Quella donna era Statilia Messalina, ultima moglie di Cesare, e più di ogni altra, incarnava il concetto di emancipazione della donna romana. Di nobile famiglia, era cresciuta a corte. Bella e spregiudicata, era subito entrata a far parte della cerchia ristretta ed intima di Nerone, di cui era diventata l’amante fin dai tempi in cui questi brigava per disfarsi della moglie, l’infelice Ottavia.

Non era stata la travolgente passione che lo  aveva legato alla bella Poppea, ma, alla morte di questa,  aveva finito per sposarla.

Quasi nell’ombra, Marco vide un’altra delle donne che tanto avevano contato nella vita di Nerone: la liberta Atte, che lui conosceva assai bene e che era stata il grande amore di Cesare prima della comparsa di Poppea.

Nerone n’era stato così innamorato che c’era mancato poco la impalmasse ed elevasse al rango di imperatrice. Finita la passione, però, non l’aveva “gettata via” come aveva fatto con le altre donne, ma tenuta a corte.

Neppure Poppea era riuscita  ad allontanarla.

Atte era sempre lì: ombra discreta ma onnipresente.

Era bella come la ricordava, pensò il giovane: la figura slanciata e aggraziata, il volto bello e sensuale e il portamento quasi regale. Sulla stola verde smeraldo, raccolta in vita da una cintura dorata, portava una mantella dello stesso colore che le copriva il capo e parte del volto, ma le esaltava lo sguardo: due occhi di un nero africano ancora intenso e fiammeggiante, lo stesso che aveva ammaliato e soggiogato Cesare.

Lo stesso che, forse, ancora continuava a soggiogarlo.

Scorrendo lo sguardo dall’una all’altra, appariva evidente l’abisso sociale delle due donne: se Messalina rappresentava l’emancipazione femminile più di fatto che di diritto, poiché sul codice restava sempre sotto tutela maschile, nella sua condizione di liberta, Atte, invece, incarnava la vera e sola indipendenza.

 

Ma ecco un altro volto distrarlo dalle sue riflessioni: Calvia Crispinilla, venticinque anni e tre matrimoni alle spalle.

Calvia era una vecchia conoscenza di Marco quando era ancora ragazzo e lo era dello stesso Cesare, fin dai tempi delle bravate al Ponte Milvio. Era lì che, all’epoca, si incontravano i giovani gaudenti della buona società. La “banda” arrivava tutte le sere attraverso i Giardini di Sallustio, tra il Pincio e il Quirinale e si aggirava tra banchi e tavole, saccheggiando e rubacchiando.

Quando a Roma si seppe che a guidare quella banda di teppisti era Cesare in persona, furono molti i delinquenti che si organizzarono per emularne le prodezze e spacciarsi per la teppa imperiale.

Erano i primi anni di regno e Cesare tornava spesso da quelle scorribande notturne con la faccia tumefatta.

 

Una figura ancora più appariscente di Calvia e Messalina dirottò l’attenzione di Marco verso la zona più riservata del salone.

“Sporo!” pensò sottovoce il tribuno.

Sporo era il ragazzo che Cesare aveva fatto evirare per farne la sua concubina; accanto a lui sedeva anche Pitagora, a cui Nerone s’era unito in matrimonio con in testa il flammeum, il velo nuziale, come una vera sposa; circostanza che fece dire allo storico Orosio: “Cesare si prese un uomo in moglie e fu moglie di un uomo!”

In verità, Marco lo sapeva accusato di ben altri crimini: aver fatto uccidere amici e vecchi compagni, perfino sua madre e forse anche Poppea… d’un tratto Marco sentì il suo sguardo su di sé.

“Ave Cesare.” salutò togliendosi l’elmo e mettendolo sotto il braccio; l’elsa della spada spuntò da sotto il mantello trattenuto da una borchia sulle spalle,

“Salute, Marco Valerio Flavio. Salute al guerriero valoroso.”

Marco avanzò a lunghi passi e Nerone lo attese con le braccia allargate e quando incrociò con lui sguardo e braccia, sotto la sua stretta poderosa gli  parve che la figura di Cesare si fosse appesantita: la carne era flaccida e il ventre prominente.

Si sciolse dall’abbraccio e lo guardò in volto.

L’occhio azzurro un po’ vacuo, quelle due tristi e gonfie protuberanze carnose che circoscrivevano una bocca un tempo sempre sorridente, erano indizi di sensi di colpa? Di tardivi pentimenti… di nascente pazzia? Quelli che lo accusavano di aver provocato l’incendio di Roma, giuravano anche di averlo visto cantare sulle rovine come davanti alle mura di Troia.

“Ti porto, o Divino, gli omaggi e i saluti del mio generale.” salutò e Cesare parlò con lui amabilmente.

I DODICI CESARI – VITELLIO

 

vitellio“Un ingordo al potere”  Questo lo sprezzante giudizio di Tacito, ma anche del popolo romano.

Questo Princes sperperò, per soddisfare la sua insaziabile voracità di cibo, milioni di sesterzi in banchetti  nel corso di pochi mesi. Sette mesi e sette giorni, per la precisione. Tanto durò il suo regno.

Come fu possibile?

Lo fu perché il Principato era un potere assoluto con un’apparenza di Repubblica. Lo fu perché egli era la  ”Legge vivente”, comandava, cioè,  su tutti ed aveva potere decisionale su ogni cosa.  Lo fu perché la Potestà Tribunizia gli riconosceva l’immunità e  l’Imperium Proconsolare gli assicurava tutti i poteri militari.  Lo fu perché  a sostenerlo era  un Senato costretto all’adulazione e condizionato dalla paura.

Un Senato, in verità,  diceva Tacito, che  adulava  Vitellio, il Princes   in carica, cercando, però, di non irritare Vespasiano, il generale appena acclamato  dai suoi eserciti. Era lo stesso Senato che aveva accordato poteri  ad Otone, dopo aver decretato la fine di Galba e che ora  sosteneva Vitellio,  senza  perdere di vista  l’altro generale,  acclamato anche questi dai suoi soldati: Vespasiano, per l’appunto.

Se Nerone doveva la sua nomina  alla madre Agrippina, Aulo Vitellio lo dovette, invece ai favori di cui godeva a corte il padre, Lucio. Lucio Vitellio, infatti, era stato intimo di Claudio e prima ancora di Caligola.

Questo il parere di Tacito.

Secondo Svetonio, invece, era stato lo  stesso Aulo a guadagnarsi il favore non di uno, ma di ben cinque imperatori. Da Tiberio, che da ragazzo aveva seguito nel suo ritiro, a Galba, cui dovette la prima nomina a Generale, passando per Caligola e Nerone, con i quali condivideva la passione per le corse dei cavalli, al punto da far loro da servente quando erano alla guida dei carri.

Il difetto principale di questo Princes, primo e dopo  la sua nomina, fu il totale disordine che regnava nella sua vita e soprattutto a tavola.

Gli storici lo descrivono come un Princes che trascurava ogni altro impegno a favore di quello della tavola e non c’è ragione per dubitarne,  a guardare i suoi ritratti che sono quelli di una persona gaudente: ventre prominente e faccia paonazza, proprio di chi ha un certo trasporto per il vino e il cibo.

Un’attività continua, però. Quasi ininterrotta. Di giorno come di notte.

“… uomo di gola non solo vorace, ma anche sconveniente e sozzo.” sottolineava Svetonio.

“… fin dall’inizio frequentava le osterie e passò la maggior parte  a far baldoria e ingozzarsi vomitando…” annotava Dione Cassio.

Anche i predecessori, in verità,  avevano sperperato grosse risorse  nei loro lunghissimi banchetti, ma l’inclinazione di questo Princes per il cibo era davvero eccessiva: più di un miliardo di sesterzi nei soli 7 mesi di regno. Dione Cassio così la definisce:

“Il tempo del regno di Vitellio fu solo un’ebrezza e un’euforia continua”

Un’ebbrezza ed una “frenesia sconcia e insaziabile”  la definiva a sua volta Tacito, che non si esauriva  a Palazzo, ma che si moltiplicava  durante il suo passaggio attraverso le città,  dove, per fargli piacere ed ottenere favori,  gli venivano  imbanditi sontuosi  banchetti.   Carri carichi di cibo, inoltre, arrivano in città per soddisfare gli interminabili banchetti  a Palazzo, ma anche quelli delle Legioni acquartierate  in periferia, così da allestire  un unico infinito banchetto.

Con amarezza, Tacito riporta:

“Se le truppe avevano in sé qualche favilla guerriera, la vanno spegnendo nelle orge e nelle bettole sull’esempio del Princes.”

Già prima dell’avvento al Principato, Vitellio aveva vissuto al di sopra delle sue possibilità, costantemente inseguito dai creditori;  Dione Cassio riferisce della sua difficoltà a reperire denaro per raggiungere il comando in Germania e di come sua madre si fosse  venduto i pochi gioielli di famiglia.

Se a tavola era così smodato, nella vita intima non dovette esserlo da meno, se Vespasiano ebbe a dire:

“E’ schiavo delle meretrici e nondimeno insidia le donne maritate dicendo che l’amore è più dolce se accompagnato dal pericolo.”

Si sposò due volte e da entrambe le mogli ebbe due figli minorati.

L’unica ambizione di questo Princes era, dunque, la tavola. Al potere non ci aveva mai pensato prima. Prima, cioè, del momento in cui Galba non gli affidò il comando delle Legioni della Germania Inferiore.

Galba disprezzava profondamente Aulo Vitellio.

E allora, perché gli  affidò  il comando di un esercito così potente,  commettendo  il più grande errore della sua vita?  Lo fece proprio perché spinto dal suo disprezzo:  non si aspettava alcun pericolo  da “un uomo senza ambizioni che pensava solo a mangiare.”

In realtà, altri imperatori avevano avuto quello stesso difetto: Caligola,  sempre gonfio di vino e cibo, Claudio, inebetito dal cibo… lo stesso Galba, dall’appetito insaziabile. Vitellio, però, aveva esteso la sua prodigalità all’intero esercito.

I legionari avevano accolto con entusiasmo questo generale così prodigo,  tollerante e comprensivo,  tanto comprensivo  da cancellare  le loro note negative e accordare  tutto quanto  richiesto.

Fu così che, non passò un mese ed eccolo acclamato  Princes   a furor di…  di legionario.

Svetonio racconta che fu letteralmente “rapito” dai suoi soldati che lo prelevarono dalla sua tenda in pieno notte,  dopo un breve confabulare.  Dopo averlo acclamato Imperatore,  lo sollevarono sulle spalle, e lo portarono in  giro come fosse una statua.

Il suo ingresso a Roma, più tardi,  per la presa del potere, avvenne da gran trionfatore: addosso il mantello militare  e al fianco il gladio,  circondato e seguito dai suoi  soldati che avanzavano  con le armi in pugno e  spinti da enorme  entusiasmo.

Egli, però, subì quell’entusiasmo senza eccessiva partecipazione,  trascinato dall’ambizione di altri. Di Fabio Valente,  uomo ambiziosissimo,  Legato della Germania Superiore e generale della IV e XXII Legione, i cui comandanti  avevano distrutto le immagini di Galba e offerto a lui la porpora imperiale.  A sostenerlo, dunque, aveva due eserciti potentissimi: quelli della Germania Inferiore e della Germania Superiore.

Le sue decisioni militari, però, non furono felici e il suo comportamento fu talvolta addirittura discutibile, come nel caso della sconfitta di Cremona, di cui cercò di ritardarne la notizia, lasciandosi mal consigliare.

Negli ultimi giorni di regno pare che Sabino, il Prefetto del Pretorio, gli avesse offerto una somma ingente affinché si ritirasse dalle scene, ma ancora una volta, fu malconsigliato.

Sicuramente Vitellio commise degli errori, per la sua incertezza, per l’incapacità e soprattutto per  i  cattivi consigli.  Non sempre, però, gli storici contemporanei  riuscirono a restare obiettivi fino in fondo, finendo per evidenziarne l’immagine negativa,  al fine di esaltare quella del successore, Vespasiano, che era riuscito a chiudere uno dei periodi più travagliati della storia di Roma.

I romani non gli perdonarono l’orrore della guerra civile, così come avevano fatto, d’altronde,  con Galba e Otone. Soprattutto, però, non gli perdonarono due cose:  il  gozzovigliare a dismisura e la totale sudditanza ai suoi consiglieri, i Legati Cecina e Valente e il liberto  Asiatico.

In realtà, più volte Vitellio fu tentato di restituire la porpora imperiale, ma sempre, i tre riuscirono a dissuaderlo.

Apatico ed indeciso, incapace di sottrarsi agli eventi, si guadagnò il l disprezzo del popolo, che simpatizzava invece per il suo antagonista,  il generale Vespasiano e  non  avvertì  la percezione dei pericoli che lo minacciavano.  Se ne rese conto solo quando le truppe di Vespasiano erano ormai vicine. Ma era già tardi.

Un uomo senza carattere, indeciso, incapace ed incoerente, che, come diceva Dione Cassio:

“… teneva discorsi contradditori esortando i suoi a combattere e nello stesso tempo a fare la pace… ”

La sua fu una morte ignominiosa e infamante, in uno scenario di orrore e crudeltà estrema.

Ecco come  Tacito descrive  l‘avvenimento:

“… il popolo si godeva lo spettacolo dei combattimenti come ad una gara al circo… laghi di sangue e mucchi di cadaveri… o ogni altra simile lordura…”

Un abbruttimento assoluto. Un’abiezione.

Al contrario di Galba, che si presentò nel Foro vestito da generale,  e come , invece, già Nerone,   Vitellio tentò di sottrarsi  alla cattiva sorte fuggendo da una porta secondaria travestito da  schiavo. Vitellio, però, tornò indietro e si barricò in una stanzetta come un comune delinquente. Coperto di stracci, andò a nascondersi in un canile, per essere poi tratto fuori malconcio e sanguinante.

La totale cancellazione finanche dell’ultimo residuo di dignità, Vitellio la raggiunse quando negò di essere chi era.  Non gli servì, però, a risparmiargli il supplizio. Con una corda al collo, fu trascinato per strada fino al Foro e sottoposto a pubblico ludibrio come un comune malfattore. Lazzi e oltraggi di ogni sorta,  lo accompagnarono lungo tutta quella penosa marcia verso la morte.  Lazzi e oltraggi  non ad opera di soldati avversari, bensì di un popolo disgustato e indignato, che, a calci e frustate,  lo spinse fino alle Gemonie, dove lo fece a pezzi e con un uncino lo gettò nelle acque del Tevere.

Era il 21 dicembre del 69 dell’era cristiana.

I DODICI CESARI – OTONE

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Correva l’anno 69 dell’era cristiana, un anno di estrema confusione.  L’imperatore Galba era morto e i Princes non si eleggevano più  in Senato,  ma sui  campi militari per acclamazione dei soldati. La procedura era sempre la medesima per tutti. Lo fu anche per  Salvio Otone, 37 anni, della Gens Salvia, una delle  famiglie più antiche d’Etruria. Il suo fu  il regno più breve: 95 giorni .

La questione dell’erede era sempre aperta, anche se ugioGalba aveva tentato di risolverla con l’adozione:

“Spenta la Casa Giulia e Claudia – aveva detto – provvederà l’adozione alla scelta del più degno.”

Ma Galba non aveva fatto i conti con gli intrighi, gli interessi privati, i rancori sociali, le gelosie e le sfrenate ambizioni  personali.

Regnavano disordine e confusione, perché contemporaneamente, le Legioni di Germania e Giudea, avevano eletto sul campo i loro generali: Aulo Vitellio e Tito Vespasiano.

La presa di potere di Otone fu un vero colpo di Stato, favorito dall’indugio di Galba, tormentato dal peso di una decisione importante da prendere: uscire dal Palazzo per guidare personalmente la repressione  oppure inviare truppe e contare sulla loro efficienza e fedeltà. Sappiamo che la decisione presa da Galba lo condusse alla disfatta.

Ma anche Otone si mostrò indeciso. Non era lui a prendere le decisioni, soprattutto quelle militari. Egli non era in grado di farlo., al contrario del suo antagonista, Vitellio, valente generale di un potente esercito. Non avendo la pur minima  formazione militare, egli aveva conquistato i pretoriani non con la guerra, bensì con  donativi generosi e molta prodigalità. Ed aveva nominato Proculo suo consigliere e Prefetto del Pretorio, ma, neppure questi sapeva nulla di guerre e strategie militari.

Stessa prodigalità mostrò al popolo appena fu eletto e inizialmente il popolo lo accolse abbastanza favorevolmente. Per varie ragioni: la condanna di Tigellino, inviso a tutti, il reintegro nei ranghi di molti sostenitori di Nerone, la ripresa dei lavori della Domus Aurea, ma soprattutto l’aver colmato il vuoto che la morte di Nerone aveva lasciato nel popolo. Dopo la vecchiezza e l’avarizia di cui Galba era accusato, la giovinezza e la prodigalità dell’antico compagno di bagordi di  Nerone, faceva ben sperare. La plebe e non solo: l’ascesa al trono era avvenuta a furor di pretoriani, che vedevano nel giovane e gaudente compagno di Nerone, una continuazione del regno di questi.. Era stato amico e favorito di Nerone fin dall’adolescenza poiché frequentava la corte e la famiglia imperiale e con lui aveva perfino diviso, per un certo tempo, la stessa donna, Poppea, che alla fine Nerone aveva tenuto per sé spedendolo in Lusitania. Proprio a causa di questo suo rapporto con Nerone,, gli fu dato il nome di Nerone, come dice Svetonio:

“… tra le feste fattegli, fu dal popolaccio chiamato Nerone, né egli diede segno di rifiutare”

In realtà, dopo un buon inizio, il favore della plebe andò sempre più scemando, fino a restringersi a poche persone, anche perchè la prodigalità del Princes si faceva sempre  più ristretta.

Sull’esempio del suo predecessore, prodigo e dissipatore,  cui si era accompagnato per quasi una vita intera e  condividendone gli eccessi,  si aspettavano tutti che egli continuasse ad imitarlo ed invece, egli adottò una condotta di vita austera. Ecco come si esprime Tacito:

“Contro ogni previsione… rinviati gli svaghi, messa al bando ogni dissolutezza tutto egli improntò alla maestà del potere.”

Qual era il suo aspetto?

Di  aspetto effeminato,  così si  pronuncia Svetonio:

“… basso di statura e sbilenco era di femminea ricercatezza nelle cure del corpo…”

Se Galba gli aveva preferito Pisone nell’adozione, la ragione era stata proprio a causa di questo  suo comportamento effeminato. Un  aspetto che indicava anche una tendenza per l’omosessualità. Non ci sono dubbi che egli fosse omosessuale e che fosse stato tra i favoriti di Nerone.

La sua vita sentimentale, però, ruotò intorno ad una sola donna:Poppea, per la quale provò un vero amore e vera passione. Nonostante le intemperanze giovanili, egli non ebbe comportamenti scandalosi o sregolati.

Tutto ciò per dire che forse, il carattere  di Otone era parsimonioso per natura? Svetonio assicura di no, riferendo addirittura che

“fin dalla adolescenza fu sì prodigo che  spesso fu ben picchiato da suo padre”.

Se non era di carattere parsimonioso come si spiega il suo comportamento?

Forse Svetonio e Tacito dicono il vero quando affermano che più che dall’ambizione, Otone fu spinto verso il trono dalla necessità e dal bisogno, essendo  oberato di debito. Le sue tante manovre, dunque, avevano questo solo scopo e la loro riuscita fu certamente casuale, favorita dalla guerra civile e sostenuta dal rancore verso Galba che gli aveva preferito Pisone.

Che non avesse cercato il potere per ambizione,  ma si sia trovato  ad affrontare una certa situazione  lo si capisce anche da una frase riportata da Svetonio:

“Che cosa ho io a che fare con grossi flauti?”

Otone riconosceva, dunque, di non essere adatto a ricoprire quel ruolo, incapace com’era  di fronteggiare le avversità e anche la paura,  E Vitellio, il suo  avversario, pare proprio che conoscesse questa sua debolezza e non si preoccupava troppo delle sue azioni.

Pavido e indeciso: due difetti che un Princes non doveva e non poteva avere. Pavido e indeciso per tutto il corso della vita e in quasi tutte le situazionii.

Non nel momento supremo.

Otone seppe morire con grande dignità. Morì suicida. Era il 4 aprile del 69. La sua morte  fu definita sublime,   e di certo non fu una esagerazione, conoscendo le cause, i fatti e i particolari.

Che cosa era accaduto?

Le truppe otoniane erano state  sconfitte a Bedriaco e ancora una volta per la sua  incertezza nel prendere una decisione e finendo per prendere quella sbagliata.

L’entusiasmo dei soldati,  però, per nulla demoralizzati dalla sconfitta, insorse più forte che mai: erano pronti a riprendere i combattimenti. Quasi un delirio. Un delirio che, però, non coinvolse il Princes il quale non desiderava un nuovo spargimento di sangue e così scrisse:

“Potrei io sopportare che tanto fiore di romana gioventù, tanti eccellenti eserciti vengano ancora una volta schiantati?”

Furono molti gli storici che riportarono questi fatti e tutti concordano: non ci fu un minimo segno di paura o cedimento. Cominciò  con  un discorso sugli effetti disastrosi delle guerre civili poi si ritirò nella sua tenda per prendere  tutti i provvedimenti necessari per la salvezza dei familiari e dei sostenitori; saggiò la lama di due spade per scegliere quella più tagliente e distribuì ai servi il suo denaro,

Una domanda che ancora oggi  si fanno storici e psicologi: come è possibile che un uomo possa cambiare così drasticamente nel giro di  poche ore… le ultime… della sua vita.

Lo stesso Dione Cassio scrive:

Dopo aver condotto una vita il più infame possibile, morì nel modo più glorioso. Dopo essersi appropriato dell’impero con i mezzi più criminali, vi rinunciò nella maniera più nobile.”

Come spiegare tanta determinazione di fronte alla morte in un uomo sempre preda della paura? E come spiegare tanto altruismo verso il prossimo? Egli, infatti, fece scorrere la tutta la notte prima di suicidarsi per assicurarsi che  i suoi sostenitori fossero al sicuro.

Nel momento supremo non ha tentennato come Nerone, che si è fatto aiutare da un liberto a conficcarsi il pugnale in gola, ma si è gettato eroicamente sulla spada procurandosi una ferita tale che morirà poco dopo. Senza tentennamenti e con stoico coraggio.

Un enigma che continua ancora oggi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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I DODICI CESARI – GALBA

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Anarchia Imperiale. Anno 882/883, il 68/69 dell’era cristiana: l’anno più lungo  di tutta la storia di Roma, che vide la morte cruenta di ben quattro imperatori: Servio Sulpicio Galba fu uno di questi.

L’imperatore Nerone era morto e l’impero stava lacerandosi. Più che di una rivolta esterna, però, la morte del Princes  era stata opera di intrighi di Palazzo, anche se le lacerazioni venivano da fuori. Venivano dal mondo militare, avido ed indisciplinato, che faceva saltare i Cesari come fossero birilli.

Roma stava vivendo un periodo di estrema confusione: le Legioni di stanza nella Germania Superiore avevano eletto Imperatore il loro generale, Aulo Vitellio e lo stesso avevano fatto  in Giudea i legionari al comando del generale Tito Flavio Vespasiano. Due generali, quindi, al comando di potenti eserciti e con l’appoggio dei pretoriani.

Galba prese il potere con l’assoluta e sincera convinzione di operare per la salvezza dell’impero. Egli fu sempre fedele alle Istituzioni  e non fece nulla per rovesciare Nerone, che cadde soprattutto per il tradimento del Prefetto del Pretorio, Ninfidio Sabino, il quale aveva promesso un donativum  a nome suo, senza però consultarsi prima con lui.. Galba prese il potere solo dopo aver saputo della morte di Nerone e si mise in viaggio per Roma ancora vestito da generale,

Non si può dire che questo generale fosse assetato di potere; egli aveva già rifiutato il Principato alla morte di Caligola, cogliendo con quel gesto il favore di Claudio.

Ma chi era Servio Sulpicio Galba?

Fu un grande generale. Caligola gli  affidò il comando delle Legione della Germania e Nerone lo nominò Governatore di Africa e Spagna.

Fisicamente se ne ha un ritratto soprattutto in età avanzata, quando, cioè, prese il potere e precisamente a 72 anni. Piuttosto impietoso il ritratto che ne fa Svetonio, che lo descrive calvo, espressione dura del volto e statura regolare, ma, dagli arti, mani e piedi, devastati dalla gotta.

E’, dunque, un uomo vecchio e debole, dal volto coperto di rughe, che, però ostenta un atteggiamento, rigido e marziale. Stride tanto, però, quel fiero cipiglio, con la persona dall’aspetto miserando ed avvizzito, da   diventare subito oggetto di derisione e canzonatura.   E poi, quel suo andare in giro con un’enorme spada al fianco era davvero una esagerazione inevitabilmente destinata a diventare caricatura.

Una nomina, quella di Galba, accolta dal popolo con grande avversione a causa proprio di questo suo decadente  aspetto.

Come mai, ci si chiede, per Claudio, anch’egli anziano quando fu nominato imperatore, non ci fu tanta avversione  come per Galba?

Forse perché dopo l’immagine brillante ed opulenta del  predecessore, Nerone, artista ed esteta,  quella da lui offerta,  austera e miseranda,  appariva sgradevole ed inaccettabile.

Lo compresero tutti. Lo comprese lo stesso Galba, quanto la sua vecchiaia fosse sgradita e per questo, così affermò:

“Non altro può offrire al popolo romano la mia vecchiezza se non un buon successore”

Ma subito, però, aggiunse,  pungente ed arguto::

“Appena si saprà di una adozione, io cesserò di essere vecchio, che è la sola accusa che mi si fa”

L’adozione! Galba pensava di risolvere il problema della successione attraverso il sistema dell’adozione, che non prevedeva legami di parentela, ma solamente capacità personali

La sua scelta cadde sul rampollo di una  nobile famiglia, Lucio Calpurnio Pisone, di cui apprezzava molto la sobrietà e la semplicità dei costumi. Quella scelta, però, gli guadagnò l’inimicizia e il rancore di Marcoo Salvio Otone, deluso per non essere lui il prescelto. Otone, infatti, lo aveva sostenuto contro Vitellio.

Otone non perse tempo e prese a cospirare conto di lui servendosi del malcontento dei pretoriani i quali  lo accusavano di avarizia per aver rifiutato loro il donativo promesso  a nome suo da Sabino.

In realtà, tutto era stato fatto a sua insaputa, ma,  l’accusa di avarizia arrivò ugualmente, immediata e precisa, appena assunto il potere.

Galba, come sappiamo, rifiutò sdegnosamente di concedere donativum ai soldati ma anche ai pretoriani di Sabino. Celebre la sua frase:

“Io li scelgo i miei soldati, non li compro”

In realtà, il comportamento di Galba indicava le sue intenzioni, che erano quelle di chiudere con il passato regime,  i suoi fasti  e i suo eccessi. E ad Otone, proprio questo rimproverava,  la sua  prodigalità di noto gaudente fin dalla nomina di Nerone, di cui era stato compagno d bagordi..

La sua austerità, però, non raccolse consensi.

E come poteva essere altrimenti? Il popolo romano, poco propenso verso il lavoro, sotto il governo di Nerone aveva avuto quello che cercava: Panem et Circenses.

Il governo di Galba durò poco. Solo  sette mesi, durante i quali subì la pressione di tre personaggi che contribuirono parecchio alla cattiva reputazione che accompagnò quel periodo e cioè  Tito Vinio, Cornelio Lacone e il liberto Icelo che, peraltro si  contendevano i suoi favori, annientandosi tra loro.

In realtà, Galba non aveva desiderato mai il potere, lo aveva accettato, si è detto, perché sinceramente convinto di poter salvare l’impero dall’anarchia.  Era un ottimo soldato e un grande generale e il ritratto che ne fa Tacito a tale proposito è proprio quello di un grande generale e di un uomo di grande austerità.

Soprattutto Plutarco sottolinea questo suo condurre  la vita  con rigore e sobrietà, sul modello degli “antichi romani”

Al contrario dei predecessori, infatti,  fu austero anche nel matrimonio e si sposò una sola volta. Si sa che Agrippina, rimasta vedova, gli fece pervenire una proposta di matrimonio, ma lui la rifiutò.

Si preoccupò, invece, di dimostrare la nobiltà dei natali e fece affiggere nel Foro il suo albero genealogico in cui faceva risalire le sue origini per via paterna a Giove e per via materna alla regina Pasifae di Creta.

Nemmeno questo riuscì a conquistargli la simpatia e l’apprezzamento del popolo romano e nemmeno i disagi affrontati e stoicamente sopportati durante il  lungo viaggio dalla Spagna, viaggio che, al contrario, aveva finito per fiaccarlo ancora di più.

Vecchio e fiacco, incapace di sottrarsi alla cattiva influenza dei suoi tre consiglieri,  ai loro eccessi ed ai  lori disastrosi consigli, finì per non essere più ingrado di prendere decisioni da solo.

Questa passività gli fu fatale. A lungo indeciso sui pareri contrastanti dei tre, l’infelice scelta finale lo condusse alla morte.

Cosa era accaduto?

Alla falsa notizia della morte di Vitellio, Galba espresse la decisione di unirsi alla truppa. Vinio suggerì di restare a Palazzo in attesa degli eventi, menre Icelo e Lacone  suggerivano di uscire. La scelta di uscire, però, lo condusse alla morte.

Fu una morte spettacolare e ignominiosa e gli storici, che di lui e delle sue imprese hanno fornito poche notizie, sono stavi invece  piuttosto prodighi nel narrare questa morte. Una morte pubblica.

Galba lasciò il palazzo, ma non riuscì a raggiungere  i suoi soldati. Incontrò, invece, i sostenitori di Otone che gli tagliarono la strada e lo spinsero verso il Foro.

Galba si rese immediatamente conto di andare incontro alla morte, ma, la sua condotta  di fronte a tale evento fu di grande dignità: degna degli  antichi romani, ch’egli ammirava profondamente e da cui  era orgoglioso di discendere.

Cadde dalla lettiga – racconta Plutarco- e rotolò per terra, ma, invece di cercare scampo, egli tese la gola ai rivoltosi dicendo:

“Fate. Se questo vuole il popolo romano.”

Un comportamento che conferma il carattere freddo e distaccato di queso Princes ,  una vita condotta in maniera coerente e la ferrea  educazione  militare.

Appartenente ad una delle famiglie più illustri di Roma, Galba, che dopo una brillante carriera militare era salito al trono per meriti e non per intrighi come alcuni dei Cesari,  di fronte alla morte si conservò fedele agli  ideali che per tutta la vita aveva perseguito. Un comportamento che  conferma il giudizio espresso  da Tacito:

“Energico nel reprimere gli eccessi dei soldati, impavido di fronte alla morte, inflessibile davanti alle lusinghe…”

Forse… forse la sola “colpa” di questo Princes fu quella di essere arrivato al potere dopo un lungo periodo in cui i romani avevano goduto di una prodigalità mai vista  prima.

LA FATTUCCHIERA di NERONE

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Magia e superstizione hanno condizionato la vita dell’uomo in ogni epoc

Nell’ antica Roma Imperiale, ai tempi di Claudio e Nerone, un nome faceva tremare la corte: Locusta ( o Locustra).

Era una giovane di grande avvenenza e dal potere e prestigio quasi illimitati ed era l’unica persona con libero accesso, notte e giorno, agli appartamenti privati di Nerone, perché era la sua fattucchiera personale.Nerone, come tutti i suoi contemporanei, era profondamente superstizioso.

Come dargli torto se ancor oggi così tanta gente si fa prosciugare il portafoglio da maghi e fattucchiere?

Nerone non muoveva un dito senza prima consultare quella stupenda creatura la quale era anche assai esperta di veleni.

Fu proprio dei veleni da lei preparati che Nerone si servì per sbaragliare la concorrenza.

(oggi si usano altri mezzi, per fortuna)

Per primo, fece fuori l’imperatore Claudio, suo patrigno, facendogli servire una gustosa pietanza a base di funghi… corretti da Locusta, naturalmente. Fu la stessa Agrippina, sua madre,  donna   dalla smodata  ambizione, che servì personalmente il pasto al marito, assistendolo amorevolmente fino alla fine.

Toccò poi al fratellastro Britannico, il quale aveva qualche diritto in più di sedere sul trono dei “figli della lupa”. La morte del povero ragazzo fu spettacolare e gli storici ne danno risalto nei loro scritti.

Britannico era stato invitato ad un banchetto e stava tracannando vino da una coppa da cui aveva già bevuto un assaggiatore. Il ragazzo chiese dell’acqua per annacquarlo, ignorando che il veleno preparato da Locusta si trovasse proprio là dentro.

 

Gli effetti però erano troppo lenti e allora Locusta preparò una mistura in polvere che Nerone riuscì con uno stratagemma a far assumere al fratellastro.

Narra Tacito

“… si ricorse a questo trucco. Si servì a Britannico una bevanda ancora innocua ma caldissima, che subì l’assaggio di verifica. Quando Britannico la respinse, poichè troppo calda, gli fu versato in acqua fredda il veleno, che si diffuse in tutte le membra.”

Morì, tra spasmi atroci, sotto gli occhi di Nerone e della corte atterrita, che, però non ebbe sospetti poiché ill ragazzo soffriva di epilessia., .

A quella morte, naturalmente, ne seguirono altre, sempre sperimentando nuove pozioni e nuovi veleni che resero Locusta una delle donne più ricche di Roma, e anche la qualifica di prima donna killer della storia.

Ma chi era questa donna?

A parlarci di lei sono stati soprattutto Tacito e Svetonio. Originaria della Gallia, dove aveva appreso tutti i segreti delle piante e l’arte di  creare elisir ed unguenti, partì per Roma. Particolarmente dotata in quest’arte, Locusta fece subito fortuna ed apre una bottega  sul Palatino, assai frequentata.  La sua specialità erano soprattutto veleni che non provocavano la morte immediata, facendola invece, apparire naturale.

A lei ricorrevano davvero tutti,  nobili e plebei.  A lei ricorreranno Messalina prima ed Agrippina dopo, per liberarsi dell’amante la prima e del marito la seconda.

Diventato  Imperatore, Nerone la rese una delle donne più ricche dell’urbe e le permise di aprire una scuola per insegnare i segreti delle piante.

Giunse, però, anche per lei il tempo della resa dei conti, della condanna e della pena.

Morto Nerone, l’imperatore Galba la fece pubblicamente giustiziare e la gente poté trarre un sospiro di sollievo.

I DODICI CESARI – NERONE

 

253Le nostre conoscenze sui Cesari, soprattutto i primi Cesari, si basano in primo luogo sulle opere di due storici: Tacito e Svetonio, il primo appartenente  all’Ordine Senatorio e il secondo  all’Ordine Equestre. Gli Ordini, cioè, che, più degli altri con l‘avvento del nuovo regime, avevano visto ridursi i privilegi. Scrissero le loro opere all’inizio del II secolo, il primo sotto Traiano e il secondo sotto Adriano ed entrambi, per esaltare le qualità dei loro Protettori, esagerarono sugli eccessi dei predecessori.

Sull’esempio di questi, gli storici che seguirono, seguitarono sulla stessa linea, ma il mito negativo di Nerone si é sviluppato soprattutto con il romanzo “QUO VADIS” dello scrittore Sienkiewicz,  l’assegnazione del Premio Nobel, che contribuì alla diffusione del libro e  le trasposizioni cinematografiche. Oggi tutti immaginano Nerone con i tratti somatici di Peter Ustinof e tutti ricordano la scena in cui  brandendo la lira, egli canta l’incendio di Roma.

E’ nato così, si é radicato e perdura ancora, il mito di Nerone incendiario e persecutore dei primi cristiani, nonostante i lavori seri e documentati, condotti dai revisionisti.

.Chi era Nerone? Il vero nome era Lucio Domizio Enobarbo, figlio di Agrippina e Gneo Domizio Enobardo. Successivamente Agrippina sposò l’imperatore Claudio e questi lo adottò e designò quale erede. Discendeva, dunque, per via materna dai Claudii e dai Giulii e per via paterna dai Domizi.

Svetonio afferma, senza mezzi termini, una ereditarietà biologica da questo ramo, facendo notare il carattere violento e dissoluto di alcuni dei suoi appartenenti. Ad es. del nonno Lucio, uomo arrogante e crudele, amante di giochi gladiatori particolarmente  violenti.

Fisicamente conosciamo Nerone abbastanza bene e non solo dalle numerose descrizioni che di lui hanno fatto i vari storici, ma anche e soprattutto dalle immagini sulle monete durante il lungo regno, quattordici anni, che hanno permesso di farne notare i cambiamenti nel corso del tempo, dovuta alla propensione per il buon vino e la buona cucina.

Il ritratto tracciato da Svetonio è piuttosto impietoso:

“… statura giusta, corpo macchiato e fetido, capelli biondicci, volto bello, occhi azzurri, collo obeso, ventre prominente, gambe  gracilissime”.

Plinio il Vecchio, però, suo contemporaneo, precisa che quelle macchie altro non erano che lentiggini e che il  fisico era ben proporzionato.

Lo stesso fece Seneca, che nell’opera composta per  celebrare l’avvento al trono del suo pupillo, lo paragonò addirittura ad Apollo per la bellezza e per il canto: un giudizio, naturalmente, non scevro da un certo servilismo.

In molti hanno voluto accostare Nerone a Caligola, non solo autori cristiani, che vedevano in lui l’AntiCristo, ma anche  autori come Svetonio.

E allora dove sono gli accostamento fra i due?  Forse, in realtà, solo nella morte. All’età di 30 anni circa. Sregolatezze le avevano accumulate entrambi, ma il primo in soli 4 anni, mentre il secondo in più di 14. Per di più, quest’ultimo, Nerone, aveva avuto un precettore, Seneca, fin dall’assunzione del potere, che all’altro era mancato.

L’accostamento viene fatto soprattutto in virtù della sregolata vita notturna, ma,  se per Caligola si trattava di una vera malattia legata all’insonnia, in Nerone potevano considerarsi semplici scappatelle, le stesse che si concedevano tutti i rampolli di buona famiglia.

Quanto agli eccessi a tavola, erano gli stessi di tutti i cittadini romani facoltosi: banchetti interminabili; quelli di Nerone duravano anche un giorno e una notte interi, intervallati da bagni e giochi.

L’altra passione di cui fu accusato era quella per le donne. In realtà egli amò con passione due sole donne: la liberta Atte, che fu sul punto di sposare e che gli restò accanto fino alla morte e Poppea che sposò in seconde nozze.

Il primo matrimonio, combinato da Agrippina, fu quello con Ottavia, figlia di Claudio e Messalina, di cui si sbarazzò subito con una falsa accusa di adulterio Lei aveva solo 12 anni e lui 16..

Il terzo, invece, con Statilia Messalina. Anche questa volta fu un colpo di fulmine, seguito da uno scandalo, poiché egli la portò via al marito Attico Vestino. Statilia lo accompagnò nei suoi viaggi, ma al primo sentore della fine, si eclissò.

Un po’ di interesse merita la storia con Poppea, donna di una bellezza rara. Nerone se ne era innamorato a prima vista. Poppea, però, era già sposata con Crispino. a cui fu portato via da Otone, amico di Nerone.

E qui nasce un piccolo giallo. Plutarco dice che fu Nerone ad incaricare Otone di sedurre Poppea per poi cederla a lui, ma che al momento di farlo, questi si  rifiutò. Svetonio riferisce invece che fu lo stesso Nerone a sedurre la donna e ad affidarla all’amico per evitare lo scandalo, ma che alla morte di Ottavia si sia rifiutato di cedergliela. Terza versione, quella di Cassio secondo il quale, in realtà, si trattava di un rapporto a tre.

Completamente conquistato da quella donna, la sua morte lo sprofondò nella più cupa disperazione. Si può credere, allora, che sia stato lui ad ucciderla con un calcio nel ventre, sia pure in un eccesso di collera? E’ difficile crederlo; gli stessi Tacito e Svetonio  riferiscono il fatto più come un incidente che un fatto voluto.

Scandalosa fu, invece, la violenza fatta alla vestale Rubria; in questo caso, però, citato solo da Svetonio, la prudenza suggerisce cautela. La stessa cautela che si impone riguardo l’accusa di incesto con la madre Agrippina.

Sregolatezze, follie notturne e altro ancora, dunque, che, non solo non furono mai represse dai precettori Burro e Seneca, ma che, al contrario, furono favorite, perché impedivano al giovane Princes  di fare altri guai.

Per comprendere i comportamenti licenziosi di Nerone occorre analizzare tutto il contesto che li favorirono: una adolescenza oziosa, la dissolutezza della vita di palazzo e uno sconfinato potere che  sviluppò in lui il desiderio di superare ogni  limite.

Forse é proprio in questa ottica che si pone il presunto incesto con la madre. Ad un’analisi più attenta, però, questo fatto risulta inverosimile agli stessi autori storici i quali lo riportarono solo per dovere di cronaca.

Ben nota, invece, la sua passione per il canto e la musica, ma Svetonio ci parla di una voce debole e velata e Dione Casso riferisce quanto fosse flebile, tanto da suscitare ironia e derisione. Diversa l’opinione di alcuni moderni storici secondo i quali, tali giudizi erano dettati solamente da sentimenti personali,

In realtà, Nerone amava sinceramente il canto e si sottoponeva a grandi sforzi e sacrifici per migliorare la voce e  salvaguardarla.  Come un vero professionista.

La stessa passione metteva nella Poesia e nella Composizione, ma, ancora una volta, i giudizi sono discordi.: Svetonio gli riconosce una certa capacità, mentre Tacito afferma che si facesse aiutare da altri.  A preparargli i discorsi, riferisce ancora Tacito, era Seneca, ma poi per primo gli riconosce qualità nell’Eloquenza,  alle cui gare Nerone amava partecipare,  dicendo testualmente: “Non manca di grandezza né di fascino…”

Ad una persona che gli chiedeva che cosa avrebbe fatto se fosse stato deposto da imperatore,  Nerone rispose: “L’arte mi darebbe sempre da vivere.”

Ecco un’immagine di Nerone che potrebbe cancellare quella del tutto inaccettabile del Quo Vadis. Una immagine quasi completa che ci parla di passioni sincere e genuine: passione per i cavalli, il canto, la poesia e il teatro, per cui calcò le scene nei ruoli di Tieste, Oreste, Edipo, ecc.

Cantare, suonare, scrivere, comporre… queste la sue vera passioni, più che i giochi gladiatori, e meno ancora  la politica o il potere. A procurargli il trono, infatti, era stata una madre ambiziosa ed intrigante come Agrippina. Nerone aveva solo diciassette anni quando fu eletto, con il nome di Nero Claudius Caesar Augustus Germanicus, ma il vero capo dell’Impero era lei, Agrippina, che, con i numerosi delitti si era guadagnato il potere.

L’influenza della madre sul figlio, però, durò poco. Non più di sei mesi, dopo di che, egli si lasciò guidare dal precettore Seneca e dal Prefetto del Pretorio, Burro, che mal tolleravano l’assolutismo della donna..

I rapporti con la madre, in realtà, erano sempre stati  difficili, le ingerenze di Agrippina lo avevano sempre  infastidito. Ora, però, la questione s’era fatta proprio seria: Agrippina aveva minacciato di ripristinare il diritto di Britannico ad occupare il trono e lo avrebbe fatto andando a farlo proclamare Imperatore sul campo dai pretoriani. Una minaccia reale, da quando si era scoperto che l’imperatore poteva essere eletto anche lontano da Roma. Una minaccia che sconvolse Nerone, ma anche una imprudenza  che segnò la sorte di Britannico e la sua condanna.

La morte del ragazzo, che aveva solo quattordici anni, avvenne con il veleno e per mano di Locusta, la stessa che aveva avvelenato suo padre, Claudio. Morì a cena,  dopo un primo tentativo fallito e il suo cadavere fu messo sul rogo quella notte stessa ed al popolo si disse che era morto di epilessia, male di cui soffriva. Dopo aver comprato il silenzio dei cortigiani con generosissimi donativi, Nerone si presentò al Senato con un discorso commemorativo, probabilmente scritto da Seneca, in cui esprimeva tutto il dolore per la morte del fratello.

Dopo quella morte, però, i contrasti fra madre e figlio divennero sempre più aspri; istigato da Burro e Seneca, Nerone si liberò di quella serrata tutela ed Agrippina si ritrovò privata di ogni potere e perfino della Guardia Personale.

Burro e Seneca, furono per Nerone quello che Agrippa e Mecenate erano stati per Augusto. La loro influenza sul principe inizialmente fu assai positiva, come ci rivela un episodio, una frase pronunciata in occasione di una condanna a morte  “Vorrei non saper scrivere.”

Su indicazione di Seneca, il giovane imperatore fece molte riforme in favore del popolo, come la riforma tributaria e monetaria che diede molti vantaggi ai più poveri.

Non solo Burro e Seneca, in realtà, ma anche la presenza a corte di alcuni liberti di Claudio, come  Pallante, consentirono, con il loro operato, una continuità nella soddisfacente  attività amministrativa.

Sempre più difficili e tesi, intanto, i rapporti con la madre, soprattutto quando gli arrivò voce di un complotto ordito da Agrippina  per detronizzarlo che lo turbò così tanto da spingerlo ad ordinare la sua morte. Davanti al Senato si giustificò dicendo che la donna aveva complottato contro l’imperatore e lo Stato.

In effetti, pare proprio che Agrippina avesse intenzione di detronizzarlo e mettere  al suo posto sul trono un uomo che intendeva sposare.

Burro e Seneca rimasero estranei a questo delitto,  ma non fecero nulla per impedirlo. Quella morte, però, tormentò molto Nerone, assalito di notte da tremendi incubi e lo cambiò profondamente.

Senza più il controllo della madre, egli cominciò a soddisfare ogni capriccio. Ripudiò Ottavia e sposò Poppea. Ottavia fu esiliata, ma il popolo scese in piazza per manifestare in suo favore e Nerone allora la fece uccidere e disse che si era suicidata.

 

Coincise proprio con questo delitto la svolta che segnerà la fine del periodo d’oro, il famoso Quinquennium Neronis, il periodo più felice di tutto l’impero romano, un’età dell’oro di 5 anni. I primi 5 anni del regno di questo Princes, da tutti apprezzato.

Burro morì poco dopo e Seneca pian piano si ritirò dalle scene e al loro posto fecero la comparsa due loschi figuri: i nuovi Prefetti del Pretorio, Rufo e Tigellino e il giovane Princes si trovò alla mercé dei propri istinti e di  soggetti  dissoluti e privi di ogni morale.

Fu l’inizio di un’epoca sempre più buia, che andò inesorabilmente sprofondando in un’atmosfera di disordine, libertinaggio, lassismo e di una scia interminabile di delitti che, tuttavia, non gli alienò il favore del popolo. Irresistibilmente attratto dai fasti orientali, fu prodigo, infatti, di donativi, regalie e banchetti sontuosi. Tutto questo richiedeva grandi risorse economiche. Denaro che egli si procurò in modo lecito o illecito a spese soprattutto della provincia, ma che gli guadagnò il consenso del popolo

 

 

 

Eccentrico ed esteta, era anche profondamente superstizioso, tanto da “vedere” in ogni fenomeno della natura (il disporsi delle nuvole, l’accumularsi della nebbia, ecc…) un avvertimento divino e fu così che la paura di congiure contro la sua persona, divenne una vera ossessione e scatenò in lui una  vera paranoia  che lo portò al delirio.

In effetti, di congiure ce ne furono tante, la più famosa fu quella di Calpurnio Pisone; i congiurati erano senatori e cavalieri appoggiati da ufficiali della guardia pretoriana, la guardia personale dell’imperatore. Pare che tra di loro ci fosse anche Seneca cui fu dato l’ordine di togliersi la vita ed egli si suicidò bevendo della cicuta.

Sulla fine di Nerone si è tanto favoleggiato. Dichiarato dal Senato nemico pubblico, Nerone si ritrovò solo e senza appoggi:  chiunque  avrebbe potuto ucciderlo. In realtà, egli aveva preso la decisione di suicidarsi prima ancora di darsi alla fuga. Le circostanze, però, gli furono tutte contrarie: la cassetta dei veleni che non si trovava e nessuno dei servi disposto a prestarsi per quell’azione. Egli era, infatti, completamente incapace di darsi morte da solo. Tentennò a lungo, come recitando su un palcoscenico in una parte di grande immedesimazione.

“Quale artista perisce con me!” e ancora

“Turpe e vergognoso è sopravvivere. Non è, non è da Nerone…”

Ma, nel momento estremo, egli trovò il coraggio e la dignità e, come riferisce Svetonio:

“ Di pié veloci cavalli mi giunge all’orecchio il rumor.” recitò  e si cacciò in gola il ferro.

Morì suicida forzato, dunque, ma morì da esteta. Nell’ora della verità non si riproverava le colpe, neppure le più orrende, come la morte della madre… né si preoccupava della tragicità del presente… l’unica cosa che deplorava era la perdita del proprio talento.

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“Di cosa parlavano i maschi alle terme di Roma?” di Maria Pace

 

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Recarsi alle Terme era per Marco  solo un pretesto per incontrare gli amici ma, all’infuori di Sabino, non avevano incontrato altri.

Dopo una breve sosta nel frigidarium, nelle cui acque si rinfrescarono, decisero di raggiungere il Gymnasium.

Ridiscesero in cortile e raggiunsero la Basilica, un grandioso edificio a forma di cupola che ospitava biblioteche e sale di conversazione. Si fermarono in una sala molto simile a un triclinio, con una via-vai di schiavi carichi di vassoi pieni di salsicce, pizze e focacce provenienti direttamente dai thermopolium.

Quello dei termopulai a Roma era uno dei mestieri più lucrosi!

Quattro colonne di marmo reggevano il soffitto decorato. Vicino alla terza colonna, sdraiato sul primo dei quattro lettini trovarono Cleonte il greco, impegnato con Metello Fabrio in una controversa conversazione sulla plebe e il suo “rancore sociale”.  Il suo gesticolare impediva a una spaurita e incauta Psiche, sulla parete alle sue spalle, di contemplare le splendide fattezze di Amore. Accanto alla pittura, una scritta dissacrante recitava: “Cornelio Lepido è il finocchio del suo schiavo Rodomonte.”

“Per Ercole! Mi piacerebbe veder nudo il focoso Rodomonte.” rise Sabino, trascinandosi dietro la risata degli altri, che si divisero subito nel giudizio come se si trattasse di un gioco combinato.

“Merito alla Legge Scantinia, senza la quale certe sfrontatezze porterebbero al degrado dell’Amore.” osservò Marco che, provenendo dall’ambiente militare, mal tollerava l’omosessualità.

La Lex Scantinia  era un insieme di norme che regolavano il dilagare delle pratiche omosessuali in Roma.

“Amore? – replicò Sabino – Ma quale Amore?”

“Chiediamolo al pedagogo Cleonte. – interloquì Metello – Chiediamogli se è Amore quello per una donna, necessario a perpetrare la specie o quello per un giovine, sollecitato da libido.”

“La Natura riesce sempre a far bene il suo mestiere.- esordì il

greco, chiamato in causa – L’Amore per donne e fanciulle?… La Natura suscita frenetiche passioni nei riguardi di donne e fanciulle,  ma accende anche irrefrenabili ardori verso altri uomini o fanciulli…. E’ un altro,  il richiamo da ignorare: quello che si prende nelle vesti o nel letto di qualcuno che ti è indifferente…. Quello il solo delitto in Amore!”

“L’intimità con un maschio è indecenza solo se la compiacenza fosse strappata con la violenza!”

“E Rodomonte? – domandò Sabino – Non mi pareva che approvassi il legame di Rodomonte con Cornelio.”

“E’ l’approccio che è disdicevole. – rettificò il filosofo – Per Cornelio Lepido è riprovevole subire gli appetiti del suo schiavo!”

“Soprattutto oggi che servi e schiavi accampano sempre nuove pretese. Parlano di giustizia e libertà… parole che hanno sempre ubriacato la gente!” fece osservare l’altro.

“Non ubriacato, ma dato la spinta a malumori apparentemente sonnacchiosi e pronti a sfociare in rivolta.” replicò Lucilio.

“Grano, spettacoli e robuste catene: così si tengono sopiti i malumori della plebe.” Silio Italico s’inserì nel dialogo fra il filosofo e il Prefetto.

“Malumori… rancori sociali! – interloquì Marco – Io sono un soldato e combatto con la spada, non con la parola, ma so che

esistono Leggi che danno regole alla società!”

“Leggi che  assicurano privilegi a chi ne hà già!” replicò Cleonte.

“Ecco cosa intendevo! – intervenne il filosofo – E’ giusto che alcuni sperperino senza misura e ad altri manchi il necessario? Che alcuni si prendano potenza, onore e ricchezze lasciando agli altri processi e condanne? – una pausa, ma solo per riprendere fiato, poi Lucilio continuò, con parole, gesti e pause ben dosati – Il malcostume scende dall’alto, ma è dal basso che il malumore si manifesta per primo: liberti arroganti, strozzini, senatori asserviti e… e dall’altro versante, contadini scacciati dalle terre, gente strozzata da debiti… ”

“Basta così! – lo interruppe Metello – Sei sapiente nell’affilare le tue parole, ma hai offeso tutti, qui! Siamo nobili e senatori e non siamo come ci dipingi tu.”

“Io non dico nulla che non sia già stato detto con i fatti. Svegliatevi! Solo un atto di coraggio può fermare questa cancrena e togliere il male alla radice. Molti la pensano così, ma pochi hanno il coraggio di affermarlo.”

“E’ l’ordine attuale, quello che tu contesti, Lucilio. – insinuò il Prefetto – E’ il sovvertimento delle regole.”

“Parole pericolose per te che le dici come per noi che le ascoltiamo. –  Silio serrò in una espressione minacciosa le gia strette fessure che erano i suoi occhi – Se continui a snocciolare il tuo “rancore sociale” con tanta sicumera, finirai male. Per cosa è che metti in gioco la tua vita, filosofo?”

“Metto in gioco la mia vita per qualcosa di molto prezioso!”

“E cosa sarebbe?” domandarono tutti in coro.

“La libertà di pensare! – rispose lapidario il filosofo – La capacità di liberarsi delle catene dello strozzino e del capestro degli interessi…. che poi è quello di cui avete bisogno voi tutti, se non sbaglio!… Per questo parlo di coraggio. Ci vuole coraggio per abbattere il malcostume. Il buon Seneca… gli Dei l’abbiano in gloria… diceva: Cum mori est nobis nullo auxilio sumus. E…”

“La tua lingua si muove troppo liberamente! – anche Metello lo ammonì, mentre continuava a battere nervosamente il coltello contro la coppa che gli stava davanti – Tienila a freno. Hai bevuto a troppe coppe imbevute di stoicismo: provvedi e non strozzarti!”

In fondo alla stanza, sull’uscio della grande porta d’accesso ai sotterranei, uomini sudati, sporchi di carbone, sepolti sotto carichi di legna, andavano e venivano gettando loro addosso stanche occhiate. Lucilio li additava di tanto in tanto, come a significare che era a gente come quella che si riferiva, ma quelli non si degnavano neppure di voltarsi a guardare.

“I fulmini della tua eloquenza vagano incontrollati – ancora Italico – e minacciano di incenerire questa allegra compagnia.”

“Le vostre sono solo pomposità verbali che servono a nascondere i vizi dei tempi in cui viviamo. – Lucilio era ormai lanciato – Parlate ma non dite! Spiegatemi… chi di voi ha scritto di Cornelio e del suo schiavo? E stato uno di voi… così, per ridere, ma non avete nemmeno il coraggio di attribuirvi ciò che dite per far ridere!”

“Lucilio mette sempre troppa passione nelle dispute.” intervenne a questo punto Marco, nel tentativo di allontanare l’amico dalla pericolosa logomachia in cui minacciava di affondare; dentro di sé, però, pensava che si commettevano più infamie là dentro nel giro di una giornata che in qualunque altro posto e temeva per l’amico.

Guardò l’abusiva giovialità di quella compagnia: l’enfasi di Lucilio, la rabbia di Silio, la bile di Metello, e si chiese se un soldato come lui  potesse raccapezzarsi in  quei discorsi ingolfati di “pomposità verbali” come diceva l’amico filosofo. Lui era un soldato e sapeva combattere solo con la spada! Ma forse c’era davvero una qualche necessità di cambiamento. Il solo rischio era che, come sempre, potesse risolversi tutto in una sanguinosa commedia. Era solo questione di tempo.  (continua)

brano tratto da  “LA DECIMA LEGIONE – Panem e Circenses”  di Maria Pace

 

I DODICI CESARI – CLAUDIO

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Gli storici contemporanei ci hanno consegnato di questo Princes il ritratto di un uomo assai pavido, corrotto e perfino un po’ ritardato, in un quadro politico degradato a causa dell’adulazione. Dice Tacito:

“Purtroppo l’età di cui io parlo fu a tal segno corrotta che non solo i cittadini di grado elevato… ma tutti i consolari… e molti pure fra i semplici senatori facevano a gara nell’acclamare ogni misura più vergognosa. Qualunque cosa facesse l’imperatore, non incontrava resistenza coraggiosa. In qualunque campo…. Così, ad esempio, i Senatori si precipitarono ad approvare il matrimonio di Claudio con la nipote Agrippina, che a Roma era considerato incesto…”

In realtà, Claudio fu un buon Princes, ma lo fu contro la sua stessa volontà: egli non aveva mai aspirato a ricoprire quella carica. Alla morte di Caligola, per mano di Cassio Cherea, ufficiale della Guardia Pretoriana,  appartenente alla corrente di nostalgici del regime Repubblicano, i quali brigavano per il ritorno della Repubblica, Claudio si vide, suo malgrado acclamato Imperatore; i rivoltosi, infatti, furono sopraffatti  dalle guardie di Palazzo, che volevano conservare l’attuale regime per non rinunciare ai molti privilegi acquisiti.

In quel frangente, Claudio diede effettivamente segno di debolezza e pavidità. Era  mezzogiorno quando, il 24 gennaio del 41, Caligola fu assassinato; convinto  che i congiurati volessero eliminare tutti i membri della famiglia imperiale,  si nascose dietro una tenda e proprio qui fu scovato ed acclamato imperatore dai Pretoriani, i quali non volevano affatto il ritorno alla Repubblica.

Claudio accettò il principato, ma con una certa riluttanza. Svetonio racconta così l’evento:

“Lo misero in una lettiga e poiché i suoi erano fuggiti, reggendolo in spalla un po’ gli uni e un po’ gli altri,  lo portarono all’accampamento fra la commiserazione della gente che lo incontrava, come se fosse tratto innocente al supplizio.”

Ma chi era Claudio?

Nipote di Marco Antonio e figlio di Druso e di Antonia Minore, nonché fratello di Germanico. Membro assai importante della famiglia imperiale, a causa  di gravi patologie, fu tenuto lontano da impegni e cariche pubbliche e  gli furono impedite uscite pubbliche di rilievo.

Infanzia e giovinezza furono molto infelici. Rifiutato e respinto, dalla famiglia in primo luogo e poi dagli altri,  era fatto oggetto di derisione, cosa che impensieriva e turbava lo stesso Augusto che, in una lettera a Livia, esprimeva la sua profonda preoccupazione per “quello strano ragazzo”.

Ma Claudio era davvero un ritardato mentale? Qual era il suo  aspetto?

Alto e massiccio, Claudio era afflitto da numerose patologie e tare fisiche che gli conferivano un aspetto alquanto ridicolo e strano. Balbuziente, aveva bocca bavosa e naso moccioso, voce rauca e risata sgradevole ed era perfino un po’ sordo. A questo si assommavano il tremito della testa,  un’andatura zoppicante e strascicante ed una mollezza alle membra inferiori. Tutti disturbi che si manifestavano soprattutto  quando era in azione ed in movimento. Quando, invece, era fermo o seduto, appariva perfino di bell’aspetto.

Secondo Svetonio i disturbi motori risalivano alla prima infanzia; successivamente,  nell’adolescenza, era stato colpito da varie malattie che gli avevano indebolito spirito e corpo, per cui era stato giudicato non idoneo a  ricoprire cariche pubbliche, che non gli vennero mai affidate,  come invece a Germanico, il fratello.

Più esplicito fu Dione Cassio che parla di malattie quali meningite o encefalite.  Gli antichi autori, però, non erano affatto in grado di identificare con sicurezza queste patologie e da qui l’equivoco.

Contrariamente a tutti gli altri Princes, Claudio non ebbe una preparazione culturale, né un vero Precettore che si curasse della sua formazione culturale e spirituale;  il giovane Claudio, però, era uno spirito curioso. Assai curioso. Ed appagò da sé quella sua grande curiosità intellettiva. Studiò da solo, Storia e Lettere. Soprattutto Greco, tanto da essere in grado di sostenere una conversazione con ambasciatori greci.

Screditato, per incapacità, sul piano intellettuale, in realtà,  egli era riuscito ad affinare le proprie qualità intellettive, sì da permettergli  una produzione letteraria  veramente notevole. Da vero erudita.

Scrisse “La Storia dei Tirrenici”,  opera composta da venti libri, cui seguì “La Storia dei Cartaginesi”, 8 libri. Iniziò anche una “Storia Romana” che abbandonò su pressione dei familiari, dopo aver scritto due libri. Sempre su Roma, però, scrisse una Storia a partire dal Principato di Augusto, composta di 4 libri  e infine, una Autobiografia di ben otto volumi. Ma non è tutto! Da perfetto erudita, introdusse nell’alfabeto tre nuove lettere, rendendo più spedito e preciso l’alfabeto. Gli fu riconosciuta, inoltre, per eleganza, l’arte dell’eloquenza, pur alterata dalla balbuzie.

Una grande opera letteraria, che, bisogna precisare, in parte di natura compilativa e, dunque, non propriamente originale, che indusse Seneca a sbeffeggiarlo, ma che dimostra la  forza di volontà e la  grande curiosità intellettiva  di questo studioso che non aveva avuto Precettori o Maestri , al contrario di altri… e dello stesso Seneca. Dimostra anche  che l’accusa di debolezza intellettuale è infondata e superficiale.

Claudio era, dunque, un uomo amante della cultura, esperto in Storia, tra cui quella etrusca; frequentava ambienti frequentati da storici e letterati, conosceva Testi Antichi e citava a memoria i versi di Omero.

Un uomo ritardato non poteva essere tutto questo!

Ma allora, quale può essere  stata la ragione di una così cattiva reputazione?

La sua disgrazia fu la malattia e soprattutto l’aspetto estetico che questa malattia conferisce al paziente: una malattia che, se ancora oggi viene accettata con molte remore, all’epoca era addirittura discriminante.  Per descrivere quelle patologie, di cui non avevano, però, alcuna cognizione, storici come Svetonio, Tacito e soprattutto Seneca, usarono termini particolari  e fuorvianti. E, cosa ancora più grave, le capacità intellettive del giovane Claudio, furono completamente sottovalutate. Accadde che, mentre Germanico viene affidato ad un eccellente Precettore, Claudio viene messo nelle mani, nientemeno che, di un ex mulattiere, al solo scopo di  essere sorvegliato.

Egli, dunque, provvide da solo alla propria formazione culturale, ma neppure questo bastò a convincere la famiglia imperiale che lo rifiutò totalmente. La madre Antonia giunse a definirlo “aborto” o “uomo incompiuto” e la nonna, Livia, si rifiutava di comunicare con lui direttamente. Solo Augusto dimostrava per lui un po’ di umana comprensione, ma, il timore che potesse fare qualche grosso errore che mettesse in imbarazzo la famiglia imperiale, lo convinse a tenerlo lontano dalla vita pubblica. Tiberio respinse le sue richieste di qualche carica pubblica con una grossa somma di denaro e Caligola, per primo gli offrì il Consolato, ma, solo per controbilanciare l’enorme popolarità del fratello Germanico.

Più che di stupidità, in realtà, Claudio era tacciato di smemoratezza,  distrazione e grossolani errori, ma tutto ciò,   tenendolo lontano dai pubblici uffici, lo condusse ad una  totale mancanza di fiducia in se stesso e ad una sempre crescente difficoltà di adattamento alle circostanze.

Dione Cassio dirà:

“… non furono tanto i suoi malanni, quanto i suoi liberti e le sue donne a danneggiarlo.  Poteva accadere perfino che egli non fosse al corrente  di decisioni presi dai liberti…”

Liberti e  donne.

I liberti erano Callisto, Narciso e infine Pallante, uomini capaci, da cui  si fece affiancare per svolgere al meglio il suo compito di Princes,  il cui apporto permise una amministrazione rigorosa ed efficiente, ma lo rese completamente succube dei tre e strumento dei loro intrighi. Facile, per un carattere molto influenzabile, impressionabile e pauroso. Paure ed angosce create ad arte da liberti e mogli, quando volevano sbarazzarsi di qualcuno. Come nel caso di Silano, fatto giustiziare solo perché il liberto Narciso gli aveva riferito di aver sognato che quegli lo stava sgozzando.

Di carattere debole, si prestava facilmente anche alle sottili manovre delle mogli. Due in particolare: Messalina e Agrippina.

Claudio ebbe  quattro mogli. I primi due furono matrimoni politici combinati dalla famiglia, ma gli altri due ebbero una grossa componente passionale.  Dalla terza moglie, Valeria Messalina, figlia di un cugino, ebbe due figli: Ottavia e Britannico. Donna di nobilissimi natali, Messalina era anche una donna dissoluta e priva di principi morali. Di lei si raccontano episodi  a tinte così forti da mettere in dubbio la loro veridicità, però,  la sua condotta da ninfomane è ampiamente comprovata.  La sua morte fu voluta soprattutto dal liberto Narciso, senza che Claudio, però, facesse nulla per impedirlo. Questo perchè la circostanza in cui maturò la decisione di condanna, fu considerata un vero “attentato alla sovranità di Stato” o un “colpo di stato”.

Era accaduto che, durante un’ assenza di Claudio, Messalina aveva sposato l’amante ufficiale,  Gaio Silio, uomo assai avvenente ed intrigante.  Claudio aveva temuto che si volesse attentare alla sua vita e consegnare il trono all’amante di lei e,  spaventato, si era rifugiato nell’accampamento, chiedendo a tutti se fosse ancora lui il Princes oppure no.

La quarta moglie fu Agrippina e, come sappiamo, questo matrimonio gli sarà fatale. Sorella di Caligola, Agrippina era sua nipote  ed era già sposata a Domizio Enobarbo. La parentela costituiva un ostacolo soprattutto legale: un tale matrimonio per la legge romana era incesto. Un Senato asservito, però, si affrettò a cambiare la legge per permettergli di convolare felicemente alle nuove nozze tanto agognate.  Agrippina era bellissima ed intrigante e si intratteneva spesso con lui in privato, in qualità di nipote affezionata.

Quali furono i rapporti  di questo Princes con il popolo? La passione per i giochi  e i numerosi donativi lo resero particolarmente gradito al popolo, ma la sua soggezione agli intrighi ed alle manovre di mogli e liberti, lo resero anche inviso nella stessa misura.

Oltre alla passione dei giochi, uno dei maggiori piaceri di questo Princes era la tavola: grosse bevute  e lauti banchetti. Il risultato, però, causa le sue patologie, era una continua sonnolenza e colpi di sonno che lo coglievano in ogni momento della giornata, anche durante lo svolgimento di compiti pubblici. I banchetti, riferisce Tacito, lo rendevano così inebetito, da non accorgersi che la moglie Messalina era stata uccisa.

Come fu il suo regno? Fra i più sereni e tranquilli.  Quattordici anni di regno durante i  quali, nonostante gli handicap, Claudio  conquistò la Bretagna, emise molti provvedimenti in favore del popolo romano e diede una nuova impronta al Principato  attraverso una eccellente organizzazione amministrativa. Affidando a persone competenti, precisi  compiti amministrativi, dimostrò non solo  di possedere tutti i requisiti del buon Princes, ma  che un uomo solo non poteva prendere tutte le decisioni.

Claudio morì avvelenato. Opinione comune è che ad avvelenarlo sia stata la moglie Agrippina con l’aiuto del suo stesso medico personale, Senofonte. Secondo il racconto di Tacito, Agrippina avrebbe servito funghi avvelenati, di cui Claudio era assai ghiotto. L’imperatore, però, non morì subito, nonostante fosse caduto  in uno stato di profondo torpore ed incoscienza e… sempre a quanto riferisce Tacito,  fu allora che Senofonte, fingendo di soccorrerlo, deve avergli somministrato dell’altro veleno.

Un uomo afflitto da patologie, Claudio, che, se fosse stato appoggiato e sostenuto dalla famiglia e gli si fosse data una preparazione adeguata all’ufficio che doveva ricoprire, averebbe potuto essere un  grande Princes.

“NELLA FOSSA” brano tratto da “LA DECIMA LEGIONE – Panem et Circenses”

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Passò quasi mezz’ora prima che il cancello dell’arcata centrale dell’Oppidum tornasse per l’ennesima volta a spalancarsi. Nel vano comparve un’imponente figura e un boato scosse l’arena:
“Seilace! Seilace!”
In piedi al centro della porta, l’atleta passava in rassegna la folla piegata verso di lui. Un insieme di odori gli giungeva da lassù, una combinazione non in armonia tra loro ed a tratti anche sgradevole: sangue, sudore e i penetranti profumi delle donne.
Sollevò la sinistra armata di gladio: era mancino. Avanzò nell’arena e si fermò accanto alla spina. Il sole strappava bagliori ai capelli corti, biondi e ricciuti: Seilace era un capo tribù. Un principe. Lottava nell’arena per guadagnarsi una libertà che non aveva prezzo: più facile mietere successi e allori, conseguire ricchezze e prestigio che tornare libero.
Scommesse e puntate aumentarono vertiginosamente: proprietà, case, terreni. Tutto si puntava sul magnifico atleta.
Seilace era un giovane di straordinaria avvenenza e lo sguardo era acuto come quello di un’aquila. La pelle aveva quel colore scuro dorato per esposizione al sole e le proporzioni del fisico erano straordinarie ed armoniose. Non era facile capire quanto sangue druso fosse misto a quello gallese nelle sue vene: sua madre era una principessa di quel popolo di antichi guerrieri. Poteva avere ventiquattro o forse venticinque anni. Era un mirmillone e combatteva con pugnale, scudo ed elmo dal cimiero a forma di pesce.
Il suo avversario doveva essere un reziario, ma gli organizzatori dei giochi avevano voluto introdurre delle modifiche nelle regole del gioco e gli avevano scelto quale avversario nientemeno che Milos il Trace, il gladiatore più imbattibile del momento: venti combattimenti senza neppure un graffio.
“Milos! Milos!”
Il pubblico si divise immediatamente all’apparire, tra le cancellate, dell’altro beniamino. Anche lui era simile ad un Dio, aitante e forte, spalle atletiche, potenti muscoli guizzanti sotto la pelle abbronzata, gambe come marmo brunito. Era armato di scudo e pugnale e in testa aveva un elmo dal basso cimiero.
Migliaia di occhi erano puntati sui due: il Circo conteneva più di ventimila spettatori; occhi fissi nell’arena anche da dietro i cancelli dell’Oppidum: lanisti, impresari, inservienti, atleti.

Fianco a fianco, i due si staccarono dalla Spina per raggiungere il podio: un’enorme tensione riempiva quel tempo d’attesa.
Avanzavano senza parlarsi e senza guardarsi. Senza sorridere. Avanzavano socchiudendo gli occhi all’ingiuria della luce dopo la sosta all’ombra dei sotterranei. Avanzavano al ritmo cadenzato di mani e piedi.
“Milos! Milos!” urlava metà dello stadio.
“Seilace! Seilace!” rispondeva l’altra metà.
Continuarono ad avanzare, lenti e solenni come statue portate in processione; gli splendidi volti parevano trasfigurati.
Raggiunsero il Palco imperiale
“Ave, Caesar Imperator. Morituri te salutant!” salutarono, poi invocarono il sostegno di Marte, Diana e dei loro Dei lontani.
“Vinca il migliore!” Cesare rispose al saluto.
I due tornarono nel centro della fossa; nel silenzio sceso sull’arena, si udirono solo i respiri trattenuti sugli spalti e sulle gradinate. Si fronteggiarono. Si studiarono. Seilace prese per primo l’iniziativa. Si calò la visiera dell’elmo e si fece avanti. L’altro, agile come un cerbiatto, gli si muoveva intorno saltellando e fissandolo con quell’espressione infantile che gli aveva guadagnato le simpatie del pubblico. Tutti, però, conoscevano l’insidia di quella danza; anche Seilace la conosceva e cercava di tenerlo lontano col suo scudo.
“Milos! Milos!” gridavano i sostenitori del trace.
Sicuro di sé e con la consapevolezza che ogni persona, ogni pietra, ogni granello di sabbia di quell’arena fosse per lui, Milos continuava la sua danza. Era il suo pubblico: lo adoravano, ammiravano e volevano quella danza ed egli li accontentava.
Nel sole che correva verso il crepuscolo, egli sorrideva sprezzante all’avversario; con aria irridente gli agitava davanti la spada ricurva e la parmula. Anche lui, infine, si calò la visiera e spinse in avanti il ferro, che andò a cozzare contro lo scudo dell’altro. Cominciarono gli assalti: Milos sempre danzando e Sailace sempre attaccando. Ad ogni colpo, dagli spalti i parmularii urlavano invettive e gli scutarii rispondevano con altre invettive.
Tra i sostenitori di Milos c’era anche Nerone e nel palco nessuno osava tifare troppo apertamente per l’altro. Quando un colpo più forte sull’elmo costrinse Milos con un ginocchio a terra, Cesare puntò su di lui il monocolo di smeraldo.
“Adesso lo stende.” esclamò
“Hoc Habet!” gridavano i sostenitori di Seilace.
“Non è facile per niente atterrare Milos.” facevano eco gli altri.
Il lanista Crescens, dal cancello della Porta della Pompa, gli urlò qualcosa. Si vide il trace piegare l’altro ginocchio, serrare la parmula contro il petto con entrambe le mani e con un formidabile colpo di reni, fare uno sbalorditiva piroetta in avanti. Il piccolo scudo fendette l’aria e colpì di striscio la testa del grande mirmillone.
L’arena rumoreggiava.
Seilace fece un passo indietro; dalla tempia destra cominciò a colare sangue. L’atleta barcollò, la vista per un attimo gli si appannò e l’urlo della folla sostenitrice del trace, giunse al suo orecchio come l’eco di un brusio:
“Diavolo di un trace! Il suo colpo segreto è inimitabile.” Gridavano i suoi sostenitori.
“Dannato di un trace! “ il coro degli avversari.

Ignorato da tutti, Marco Valerio subiva la stretta sorveglianza pretoriana con malcelata insofferenza. Si guardava intorno spostando lo sguardo dall’una all’altra di quelle facce che fino a qualche giorno prima erano state quelle di amici e che ora parevano timorose perfino di incrociare gli occhi con lui.
Solo Calvia Crispinilla pareva fare eccezione a quella consegna. Non per amicizia, certo, ma per stuzzicarlo e punzecchiarlo:
“Su chi stai puntando? Corre voce che tu sia a caccia di sesterzi!”
Marco la ignorò.
La folla prese a rumoreggiare: poteva sembrare che i due grandi atleti evitassero il contatto fisico. Impensabile, però, tra due atleti di quel valore.
In realtà, trucchi per evitare di uccidersi erano conosciuti e risaputi: ferite lievi ma spettacolari, con tanto sangue e slabbrature potevano salvare la vita ad entrambi gli avversari. Se solo, però, l’ombra del dubbio sfiorava la folla, la jagulatio era la punizione per entrambi.
La cruenta schermaglia durò un bel pezzo ancora, infine, Milos cessò di danzare e Seilace, ginocchio piegato in fuori e gladio ben stretto nella destra, attese l’attacco. Quello vero.
“Forza, Milos. – lo incoraggiavano – Sei forte. Attaccalo!”
Se Milos era forte e irruente, l’altro, però, aveva dalla sua cinque anni di esperienze nelle arene di tutto l’impero; le ombre del pomeriggio scivolavano lungo il perimetro della grande fossa: nessuna esclusione di colpi.
Fu Milos a dare per primo segni di stanchezza. Sailace, che aveva bene amministrato forze ed energie, si preparò alla battaglia finale.
Mise a segno una terribile stoccata sullo scudo del trace che barcollò e indietreggiò incespicando. Cadde all’indietro e piegò un ginocchio a terra.
L’arena balzò in piedi urlando:
“Seilace, sei tu il più forte!”
Milos si rialzò. Seilace lo serrò da vicino, ma lo trovò pronto a sostenere l’attacco. Tale, però, fu l’impeto che Milos mise nel braccio nello stoccare lo scudo avversario, che il gladio gli sfuggì di mano. Cercò subito di recuperarlo, chinandosi in avanti, ma Seilace approfittò del vantaggio e s’avventò su di lui col gladio. Fece l’atto di conficcarglielo nell’incavo tra la gola e la spalla sinistra, ma pareva esitare.
Milos, che nel frattempo s’era rialzato ed aveva recuperato l’arma, abbandonò lo scudo e si avventò sull’avversario. Anche Seilace lasciò andare il suo grande scudo e i ferri si incrociarono: gladio contro gladio, braccio contro braccio, un groviglio di muscoli vibranti e nervi tesi.
Un magnifico simulacro di pietra vivente.
Le donne, sporgendosi in avanti col busto e le braccia, invocavano i loro nomi. Neppure le Vestali, nascoste nelle loro nuvole bianche di velo, parevano insensibili al fascino perverso che i due splendidi corpi in lotta esercitava sulle loro fantasie.
Quando i due si staccarono, Milos sanguinava dalla spalla sinistra, all’altezza dell’omero. Lo splendore vermiglio del proprio sangue, fece avvampare il principe trace di nuovo vigore e di orgoglio, ma gli fece anche dimenticare la prudenza. Si avventò sull’avversario come una furia, ma andò incontro alla sua arma tesa.
“La guardia…- gli gridarono dagli spalti – Attento alla guardia…”
L’arma di Seilace lo raggiunse al fianco sinistro lasciato scoperto.
Milos cadde
“Habet!” gridò Calvia Crispinilla, che sosteneva Seilace.
“Jugola! “ le rispose Marcia Rufo, che sosteneva Milos.
Marco Valerio guardò l’una, poi l’altra.
“Seilace… Milos!” Umbricio, l’aruspice di Cesare, non aveva ancora fatto la sua scelta.
“Quale dei due, indovino?” chiesero i cortigiani.
“Orsù! Ho ben riposto i miei sesterzi?” anche Cesare sollecitò.
“Milos, naturalmente!” rispose senza esitazione l’indovino.
“Hai una risposta anche per il nemico di Cesare? – lo provocò Pudente – Il generale Galba che sta guidando la sua Legione…”
“Chi osa pronunciare quel nome davanti a me? – lo interruppe l’urlo soffocato di Nerone – Chi osa parlare di Legioni in marcia contro Roma? -Nerone appariva davvero arrabbiato – Fuori di qui! Portate le vostre misere persone lontano dalla mia vista o, Per Giove, vi faccio scaraventare nell’arena a misurarvi con quei due!”
C’era sempre una certa soddisfazione in quella corte di parassiti quando qualcuno di loro cadeva in disgrazia, cosicché la loro uscita fu accompagnata da sguardi e risatine compiaciuti.
Marco, intanto, pensava che la vittoria dell’uno o dell’altro dei due atleti, così come gli aveva assicurato Quintilius, non avrebbe cambiato il destino di Lucilla. Era necessario, però, che il Campione dei Giochi, dal momento che Valentinus aveva lasciato l’arena con le sue gambe, ma seriamente ferito, fosso proprio uno di loro due e non qualcun altro.
La sua attenzione tornò all’arena.
Milos, riverso al suolo, con una mano si comprimeva il fianco; rivoletti di sangue gli scorrevano tra le dita contratte andando ad arrossare l’arena già rossa di altro sangue. Il ragazzo lasciò andare il gladio e si accasciò ai piedi dell’avversario.
Con la punta del sandalo ferrato, Seilace lo girò sulla schiena e gli pose il piede sul petto aspettando il verdetto della folla.
“Pietà per lui!”
Un urlo si levò dagli spalti alle spalle di Cleonte, che aveva seguito con molto interesse ogni fase di quel combattimento.
“Tracia! – esclamò il greco voltandosi – Per la Barba di Nettuno! Non mi ero accorto della tua presenza.”
La ragazza, che il greco aveva chiamato per nome, pareva molto preoccupata per quanto stava accadendo nell’arena. Era molto bella. La pelle, di un candore di marmo, come di latte attraversato dal sole, era trasparente e morbida; i lineamenti del volto erano delicati e gli occhi, di un azzurro intenso. I capelli biondi, legati sulla nuca a coda di cavallo, alla maniera tracia, scendevano sulle spalle morbidi e setosi. Alta e slanciata, un fisico ben proporzionato, aveva un portamento nobile, quasi regale, ma alle braccia portava la fascia argentata delle schiave di riguardo, anche se le vesti erano di ottima fattura e qualità. Forse era una di quelle prigioniere barbare, il nome era tale, che vivevano presso famiglie patrizie o senatoriali come ostaggi imperiali, occupando posti di riguardo nella gerarchia dei servi.
Seguiva il cruento spettacolo con grande apprensione e con altrettante speranze rincorreva gli umori della folla nelle tribune, sugli spalti e intorno a lei.
“Non ti crucciare, Tracia.- cercò di tranquillizzarla il greco, facendole un affettuoso buffetto sulla guancia – Non accadrà nulla a nessuno dei due. Milos e Seilace sono entrambi beniamini delle folle e i sostenitori dell’uno impediranno a quelli dell’altro di pretendere la jagulatio del loro favorito. – poi anch’egli si girò verso il podio – Mitte!”
“Mitte!” urlarono i due amici trascinandosi la folla in un sol grido, ma qualcosa di inaspettato stava accadendo all’interno della fossa: Seilace si stava avvicinando alle gradinate occupate dal popolino.
Il biondo mirmillone conosceva bene la folla: orda insoddisfatta che riversava in quella fossa risentimenti e frustrazioni. Egli sapeva che la plebe avrebbe preteso il contrario della nobiltà: se i nobili avessero chiesto sangue, quella avrebbe concesso la vita.
“Non voglio il sangue di un valoroso.” gridò.
Non era il solo: l’intera arena era con lui e in piedi invocava la clemenza di Cesare per il magnifico atleta ferito.
Tutti i pollici erano rivolti al cielo.
“Mitte! – urlavano – La salvezza al vinto e il premio al vincitore!”
Milos ebbe salva la vita.
Trecentomila sesterzi, la verga d’oro e la Vergine dei Giochi, furono il premio per il vincitore.
(continua)
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