Perché i Colossi di MEMNONE non piangono… o, più correttamente… non gemono più?

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Le due colossali  statue,  alte più di 18  metri, che si incontrano lungo le rive del Nilo, sulla riva opposta alla città di Luxor,  che conosciamo con il nome di Colossi di MEMNONE,  raffigurano in realtà il Faraone Amenopeth III e risalgono alla XVIII Dinastia, intorno al 3430 a.C..  ed erano collocate davanti al complesso funerario del Faraone.

Perché mai questo nome?

Perché del complesso funerario, andato distrutto a causa dell’azione dei venti, delle inondazioni,  dei saccheggi,  dell’incuria dell’uomo, ecc..  attraverso i secoli,  si finì per non essere più  in grado  di attribuirgli una paternità.

Uno  strano fenomeno,  però, creo una leggenda già nell’antichità: dal  colosso situato più ad occidente, cominciò a levarsi un suono assai simile  ad un  gemito o canto lamentoso.  La fantasia popolare del tempo lo attribui ad un saluto. Il saluto di un eroe della mitologia classica a cui le statue erano state identificate: MEMNONE,  il più avvenente tra gli eroi  greci,  figlio dell’Aurora e di Titone, nipote di re Priamo di Troia. Proprio a Trioia, nell’ultimo anno di guerra, il giovane  trovò  la morte per mano di Achille.

La leggenda narra che quel suono sia il saluto malinconico del figlio alla madre, la dea Aurora, ogni mattino. Più  nitido d’estate.

Il suono,  però,  tacque, quando l’imperatore romano Settimio Severo  ne ordinò  il  restauro  e da allora i Colossi non hanno  più  “cantato”.

Quale l’origine e la causa di quel “suono”?
Probabilmente a causa  del passaggio dell’aria attraverso la spaccatura nella pietra, a seguito di terremoto o altro, oppure, forse…  teoria più  accreditata,  a causa  del monsone di terra,  in estate, che  tornando indietro dalle montagne  (ben visibili nell’immagine)  passando tra le due statue produceva quel fischio lamentoso

 

 

 

 

 

EGITTO – ALCHIMIA… che cosa hanno in comune?

EGITTO - ALCHIMIA... che cosa hanno in comune?

EGITTO: é  la traduzione italiana del teemine greco Ae-gi-Pthos, che a sua volta traduce l’antico termine egizio: Hut-Ka-Ptha.

Il significato letterale è:

DIMORA (Hut) dello SPIRITO (Ka) di PTHA.

E’ la III Dinastia e PTHA è IL Dio Dinastico di MEMFI.

In precedenza il territorio era indicato con altro nome: “Il Paese delle Due Terre”.
Le Due Terre erano: – KEM  o  “Terra Nera”  e
– DESHRET  o “Terra Rossa”.
L’unificazione delle Due Terre avvenne dopo varie ed alterne vicende, militari e diplomatiche, e un “Concilio”, in cui si decise di dare quel nome a tutto il territorio, in onore di PTHA, IL DIO CREATORE.

Curiosità: la parola ALCHIMIA deriva proprio da KEM (terra nera), che i tanti sognatori cercavano di manipolare chimicamente per trasformare in oro il materiale vile.

Fin dai  tempi pre-dinastici (Dinastia “O” – Re Scorpione) gli Antichi Egizi erano famosi per la loro abilità  nella lavorazione dei metalli e per la capacità di trasformarli.
Per separare l’oro e l’argento dal minerale originario  utilizzavano “l’argento vivo” (mercurio).
Il residuo che veniva fuori  da questa operazione  era la “polvere nera”, chiamata “khem”,   una sostanza scura  che si  riteneva  avesse poteri magici e  contenesse le proprietà dei vari metalli, considerata anche “principio attivo” nel processo di lavorazione.
Gli Antichi Egizi, inoltre, in  tale sostanza riconoscevano il “Corpo di Gloria” di Osiride, il Dio Morto e Risorto e le attribuivano potere magico, fonte di vita e di energia.
Man mano che i metodi di estrazione e lavorazione del metallo andavano perfezionando,  cresceva anche l’interesse per la ricerca e lo studio relativo ai “poteri magici” di leghe e fusioni.  Ne nacque una Scienza,  che contemplava l’arte della lavorazione, ma anche le conoscenze chimiche dei metalli  e che fu chiamata “Khemeia”,  preparazione del “metallo nero”.
Gli Arabi vi aggiunsero l’articolo  “El”  e  Khemeia diventò “El-Khemeia”  da cui Alchimia.

“Khem”,  ossia “Terra Nera”,  a causa del colore del fango,  era  uno dei nomi con cui era chiamato in origine l’Egitto.

 

ANTICO EGITTO – Tradizioni e Curiosità

IL REN – Il Nome-segreto

IL  REN  - Il Nome-segreto

Antico Egitto e… il nome

Il mio nome è MARIA PACE. Il ren, ossia il nome, dicevano gli Antichi Egizi, é lo strumento che conferma l’esistenza di una persona, uomo o donna. Senza il proprio nome, dicevano, la persona non esiste.
Questo, d’altronde, vale anche ai giorni nostri: basta guardare gli imbarazzanti atteggiamenti dei concorrenti dei vari reality che imperversano in TV.
Ai tempi degli antichi Egizi, il nome era una cosa seria. Ne volete una prova?
ISIDE, la più potente fra le Divinità femminili del Pantheon egizio, narra una leggenda, decise un giorno di concentrare in sé tutta la potenza divina, detenuta dal vecchio e bavoso Ra, Padre degli Dei:  conoscere il REN di qualcuno permetteva (con un particolare rituale magico) di appropriarsi della sua forza, potenza e vitalità…
Con la complicità di TIAMAT, Dea-serpente, iniettò del veleno nel corpo di RA e lo ricattò:
“Rivelami il tuo ren, il Tuo nome segreto, ed io ti libererò da questa sofferenza.”
Il Padre degli Dei temporeggiò e provò ad ingannarla:
“Io sono Khepry che sorge al mattino – disse – Ra che arde a mezzogiorno e Ammon che tramonta a sera.”
“Questo non è il tuo ren.” insistette la Dea.
Quando RA capì che ISIDE non avrebbe ceduto, fu lui a capitolare:
“Figlia ingrata!” proruppe e la pregò di accostare l’orecchio alle sue labbra affinché altri non udissero il suo divino-ren. ( E nessuno l’ha mai saputo!!!)

(nota! su alcuni monumenti d’epoca più antica vi sono intagliate o solo dipinte delle orecchie: una forma di difesa, proprio come dipingere l’occhio su pareti o sarcofagi)

Se tutto ciò non vi pare ancora sufficiente a comprendere l’importanza del “nome” per gli antichi Egizi, sentite questa, allora!
Sapete quel che il faraone Thutmosis III fece a sua zia, la famosa Regina-Faraone Huthsepsut, Grande Consorte Reale di Thutmosis II?
La Regina si fece sedurre dal potere e, di fatto, regnò per diciassette anni circa sul Paese. E non come Reggente, (Thut III era ancora ragazzo) ma come una vera Sovrana.
Quando il nipote-figliastro riuscì ad agguantare il potere, fece scomparire il nome, si dice, da tutti i suoi monumenti. Cancellandone il nome, il Faraone volle cancellarne il ricordo, la memoria e l’esistenza stessa.
Davvero straordinari, questi Antichi Egizi, eh!!

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ANTICO EGITTO – Tradizioni e Curiosità

La Maledizione dei Faraoni

La Maledizione dei Faraoni

Qualcuno crede ancora nella “Maledizione dei Faraoni”? Probabilmente sì!
C’è qualcosa di vero? Naturalmente no!
Come e quando è sorta questa leggenda? Che cosa l’ha alimentata così a lungo?
Tutto cominciò quando l’archeologo inglese Haward Carter scoprì la tomba del celeberrimo faraone Thut-ank-Ammon, durante una spedizione archeologica finanziata dal magnate americano  Carnarvon.Rimanderemo ad altra occasione la straordinaria e clamorosa scoperta di questa tomba e resteremo nell’ambito della più colossale “bufala” (così la chiameremmo oggi), architettata ad arte per sfruttare un’inaspettata ingenuità, dilagante nel momento intero.
Innanzitutto bisogna riconoscere l’uso che nel Mondo Antico si faceva di formule di maledizione per colpire o annientare un nemico. (uso che purtroppo persiste ancor oggi: basta seguire qualche programma televisivo)
Una delle forme più comuni di Maledizione, presso l’antico popolo egizio, era quello di scrivere una formula magica su un vaso o un coccio, facendola seguire dal nome del malcapitato: una formula con cui, naturalmente, si augurava ogni sorta di sciagura. Nel corso di una cerimonia si mandava in frantumi il vaso, accompagnando l’atto con le Parole Magiche: le He-kau.
Studiosi ed archeologi moderni, sia quelli seri, sia quelli che seri non erano affatto, conoscevano perfettamente l’uso di quelle pratiche.

Una di queste tavolette maldicenti fu trovata da un assistente di Carter. Fu dapprima  catalogata come tutti gli altri reperti, ma in seguito, ripulita del terriccio, venne decifrata.
I geroglifici recitavano così:
“la morte colga con le sue ali
chiunque disturberà il sonno del Faraone.”
Fra il personale addetto agli scavi si diffuse un’immediata inquietudine: consapevoli delle paure ancestrali degli uomini del posto (manovali, sterratori, portatori) in primo momento si cercò di tenere  segreta la notizia di quel ritrovamento e si fece perfino scomparire il reperto. Ancora oggi non si sa dove sia… né se sia davvero esistito.
Si trattava, però, di una notizia davvero ghiotta; impossibile da nascondere. Non passò molto tempo, perciò, prima che arrivasse a gente di pochi scrupoli e con conoscenze archeologiche e scientifiche praticamente nulle: avventurieri,  truffatori e, immancabilmente, esoterici.
Quasi ad avvalorare le teorie di costoro, che sostenevano l’esistenza di una “maledizione”, una seconda iscrizione maldicente comparve all’interno della camera principale del sepolcro e recitava pressappoco così:
“Io respingo i ladri di tombe
e proteggo questa hut-ka (sepolcro)”
La notizia fece il giro del mondo e la leggenda della “Maledizione di Thut-ank-Ammon” ebbe inizio.
Come resistere a quell’affascinante storia di fantasmi e mistero?
Tredici, delle ventidue persone che componevano la Spedizione-Carter, persero la vita, si disse. Si disse e si ripeté per anni in tutto il mondo e in tutte le lingue, alimentando una superstizione che aveva il fascino del più profondo mistero. Si alimentarono ad arte un’inquietudine ed una paura sempre crescenti.
“Chiunque entri a contatto – si diceva – con la tomba del faraone Thut-ank-Ammon, resta vittima della sua Maledizione.”
Quel che si ometteva di dire, però, era il fatto che tutte quelle morti erano spiegabili, perché provocate da fattori naturali (cattiva igiene, malaria, morsi di serpenti, ignoranza).  E  si omise  di precisare che molte di quelle morti erano avvenute in tempi molto successivi e per cause tutt’altro che misteriose.
La leggenda della Maledizione, però, era estremamente affascinante e quel fascino catturava molti… Troppi, forse. Catturò letteratura e cinema. Soprattutto il cinema, che girò una pellicola dal titolo suggestivo: “La Mummia”, che fece da battistrada ad un filone di genere nuovo e accattivante: il “fantasy”.
Cos’è, dunque, la “Maledizione dei Faraoni”?

Gli studiosi conoscono perfettamente la profonda religiosità dell’antico popolo egizio: religiosità permeata di magia e superstizione, prodigi e misteri.
Una elite di persone, però, si staccava dalla moltitudine e nella misura in cui la Conoscenza cresceva (Scienza, Astronomia, Matematica, Medicina, Architettura, ecc) crescevano anche il loro sapere e il divario con un popolo lasciato nell’ignoranza. ( come in tutte le culture, naturalmente. Non esclusa la nostra)
Gli studiosi moderni conoscono anche lo sforzo costante degli antichi Sacerdoti egizi per proteggere le tombe da profanatori e saccheggiatori, in azione fin dai tempi più remoti. ( la tomba di Thut, ad esempio,  fu violata durante il primo anno successivo alla sua morte).
Congegni, trabocchetti, trappole: nulla di tutto ciò avrebbe tenuto lontano ladri audaci e con nulla da perdere.
Una sola forza poteva trattenerli e fermarli. I Sacerdoti egizi la conoscevano bene: la paura. La paura alimentata ad arte dalla superstizione; la paura dell’inspiegabile e dell’ignoto. In altre parole: la paura di una “maledizione”.
Per farlo, però, bisognava rendere credibili ed efficaci le minacce di una “maledizione”.
Quali mezzi avevano, gli antichi Sacerdoti egizi, per farlo? Possedevano conoscenze scientifiche e tecniche totalmente ignote al popolo e che custodivano assai gelosamente.
Un esempio? Gli antichi Sacerdoti egizi conoscevano gli effetti (ignorandone la causa) di sostanze radioattive come il radio o l’uranio; soprattutto quest’ultimo, che trovavano in profondità nelle miniere d’oro, (profondità in cui erano mandati a lavorare i condannati… soprattutto di reati gravi) .  Conoscevano le proprietà allucinogene o letali di certe piante e sostanze: oppio, aconito, cicuta, arsenico, i cui fiori dai petali colorati rallegravano i famosi “giardini di Hathor”… e non solo quelli.
Nessun congegno, per quanto pericoloso, poteva essere efficace quanto un’allucinazione o una morte inspiegabile. Se ancora oggi esistono persone ingenue che credono nelle maledizioni e si affidano a responsi, (lo attesta la numerosa clientela di santoni, veggenti e chiromanti) come stupirsi che in un passato così remoto ne fosse vittima gente ignorante e superstiziosa?
Ed ecco la domanda cruciale: che cos’è, in realtà, la famosa “maledizione dei Faraoni”?
Sono le conoscenze scientifiche e tecniche che gli Antichi Egizi possedevano e mettevano in pratica per proteggere le loro tombe. Sone le misture di allucinogeni dei colori utilizzati nelle pitture murarie… sono gli oggetti resi radioattivi e poggiati in bella mostra, che toccati o portati via potevano condurre ad una misteriosa e sono accorgimenti di tale tipo
Com’è nata, in tempi moderni, quella leggenda?
Nacque dall’incredibile interesse mondiale sorto intorno a quella tomba, la più ricca mai scoperta prima, e fu alimentata da una stampa irresponsabile e da fantasiosi narratori, i quali cavalcarono l’emotivita, l’ignoranza e quell’inconscio desiderio di favole che è in fondo allo spirito di ognuno di noi. Esoterici e pseudo-studiosi fecero il resto, proponendo le più stravaganti ed improbabili fantasie e spacciandole per teorie che… se non sbaglio, sono cose che vanno dimostrate.
La “maledizione dei Faraoni” non è neppure una teoria, ma solo una fantasia per tutti quelli che credono in quel genere di favole.

                                 

 

ANTICO EGITTO – Tradizioni e Curiosità

ANTICO EGITTO… E IL DESTINO

ANTICO EGITTO... E IL  DESTINO

Presso tutte le antiche culture, Il Fato o Destino è quel “Genio” che prende l’uomo per mano e lo guida lungo il suo cammino.
Gli Antichi Egizi non facevano eccezione. Credevano che  ogni creatura umana avesse un percorso già tracciato e stabilito prima ancora della sua nascita.
Stando così le cose,  dicevano i Saggi, nessun uomo era in grado di mutare il corso del proprio destino.  Però, aggiungevano, disponendo di alcuni elementi, come la data di nascita, la posizione di stelle e pianeti in quel giorno, ecc… si potevano, se non mutare, almeno prevedere le mosse del Destino e, quando possibile, provare a prevenirle o correggerle, oppure adattarvisi.

Shai, era il nome della Dea del Destino e non mancava mai all’appuntamento con una nuova vita che si affacciava a questo mondo.
Era sempre presente ad una nuova nascita, ma non si presentava mai da sola. Le inseparabili compagne di questo immancabile appuntamento erano altri due Geni: Renenet e Meskhenet.
La prima, incessantemente invocata dai mortali, era la Signora della Fortuna e la seconda, non meno autorevole delle altre due, era la Signora del Futuro.
Questa Triade, insieme costituiva anche la corte di Tuaret, la Dea che presiedeva al parto e che attraverso la sua Grande Sacerdotessa, assistiva la partoriente ed il bambino, cui dava responsi per il futuro.

Così si legge su un papiro custodito a Berlino:
Le tre Dee, assunte le sembianze di tre donne comuni, si presentrono nella casa del nobile Ea-User, la sui sposa, Rut-Tettet, stava avendo le doglie e l’assistettero amorevolmente assieme alle altre donne della casa.
Rut ebbe tre bei gemmellini.
Al primo dei tre che aprì gli occhi alla luce, la dea Meskhenet profetizzo:  “Sarà Re!”
Renenet aggiunse: “Dominerà su tutta la terra”
E Shai, infine: “Il suo Regno sarà breve, ma felice e prospero.”
La stessa cosa i tre benevoli Geni dissero quando venne al mondo il secondo gemellino.
All’arrivo del terzo, Shai esclamò: “Il suo Regno sarà lungo e duraturo.”
La stessa cosa profetizzarono le altre due Signore del Destino.
Quei tre neonati diventarono, in età adulta, i primi tre Sovrani della V° Dinastia.
Il racconto, invece, risale ad epoca ramessida: più di mille anni dopo.

 

                                              
Un’altra storia, assai simile ad alcune delle favole moderne, racconta della visita delle Tre-Signore ad un’altra partoriente, sposa di un Sovrano, la quale dette alla luce un bel maschietto.
“Fra diciotto anni un cane, un coccodrillo o un serpente, si presenterà qui per portarlo via.”
Sentenziarono insieme i tre Geni.
Significava che a diciotto anni il piccolo principe sarebbe morto per il morso di un cane o di un coccodrillo oppure di un serpente.

I compiti di queste tre simpatiche Signore, però, non terminavano qui e quelle non erano sempre così favorevoli e disponibili con i mortali.
Shai, Signora del Destino, era anche il Genio della Fatalità e dell’ineluttabilità del Fato e si sa che, a volerlo evitare, spesso si finisce ancor più velocemente nelle sue braccia.
Il Destino, sentenziavano i Saggi, rende vano ogni sforzo dei mortali per procurarsi ricchezza o felicità, se manca  il suo consenso.

Una Dea assai, invocata, dunque, Shai, e perfino minacciata, secondo la disposizione tutta egizia di pregar gli Dei.

 

Anche Renenet, Genio della Fortuna, era assai corteggiata, come lo era Meskhenet, che del Futuro di ogni mortale conosceva ogni particolare.
Tutte e tre, inoltre, erano invocate anche in molte altre circostanze: matrimoni, viaggi, affari, guerre, e altro ancora.

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ANTICO EGITTO – tradizioni e curiosita’

Mummificazione o Imbalsamazione?

Mummificazione  o  Imbalsamazione?

MUMMIA!  Un termine che evoca terrificanti, hollywoodiane scene di “zombi” che avanzano barcollando e perdendo pezzi di bende. Questo termine, perciò, è diventato sinonimo di cosa raccapricciante  e spaventevole.
Mummia o corpo imbalsamato?
Naturalmente non è la stessa cosa, anche si tende a definire “mummia” qualunque corpo conservato,  proveniente dal passato.
La mummificazione è un processo naturale di conservazione del corpo mentre l’ imbalsamazione è un processo artificiale.
Nel primo caso occorrono: assenza totale di umidità e temperature elevatissime oppure bassissime. (vedi la mummia del Similao).
Nel secondo caso, invece, occorrono balsami (da cui il termine) ed altre sostanze necessarie al processo di conservazione.

Gli Antichi Egizi hanno praticato la mummificazione fino alla III o IV Dinastia dei Faraoni; in qualche caso anche durante la VI Dinastia, quando, cioè, per le sepolture (a parte la Piramide) venivano scelti siti desertici ad elevata temperatura e scavando in profondità.

A partire dalla VI Dinastia e soprattutto durante il Nuovo Impero, quando la capitale si spostò da Memfi a Tebe, nella Valle, dove l’umidità era assai più elevata, nacque l’esigenza di trovare un rimedio all’azione di decomposizione dei corpi.
Il processo di imbalsamazione era lungo ed elaborato e poteva durare fin anche a 60 – 70 giorni; le operazioni erano numerose.
Per primo si estraeva il cervello, attraverso le narici e con l’ausilio di un martelletto e di attrezzi chirurgici; il cuore, invece, salvo rare eccezioni, restava in loco.  Gli occhi venivano sostituiti con globi o altro materiale.
Successivamente si praticava un’incisione di una decina circa di centimetri sul fianco sinistro del corpo, sufficiente all’imbalsamatore (un medico, perfetto conoscitore della struttura interna di un corpo) per introdurvi una mano ed estrarre i tessuti molli: intestino, fegato, polmone e stomaco.
Questi, a loro volta, venivano trattati e conservati, il più integralmente possibile, in appositi vasi detti canopi , dal nome della città in cui si producevano: Canopo.
Al loro posto nella cavità, venivano introdotte sostanze varie: profumi, balsami, resine, sabbia, ecc… Poiché non esisteva ancora pratica di sutura delle ferite e l’apertura tendeva ad allargarsi ed a rigettare il materiale introdotto, si ricorse all’uso di bende.
All’inizio si trattò di un bendaggio leggero; in seguito, però, a partire dalla XVIII   Dinastia, quello del bendaggio (fino a venti strati) divenne un vero rituale durante il quale ogni parte del corpo veniva affidata alla protezione di una specifica Divinità.

Sostanziale, dunque, la differenza tra mummificazione ed imbalsamazione. Ciò nonostante, si indica un corpo sottoposto a processo di conservazione, con un solo termine: MUMMIA.
Ma da dove deriva questo termine?
All’inizio dell’avventura egizia, alcuni studiosi  cercavano di studiare le sostanze che facevano da collante alle bende; ancora oggi, alcune di quelle sostanze sono rimaste sconosciute: forse provenienti da piante estinte o, forse, altro.
Si scoprì una sostanza scura ed appiccicosa, simile  al bitume.
Il bitume, in Egitto, veniva indicato con termini quali: mummif o mumiya. Si usò lo stesso termine per indicare quel corpo oggetto di studio e tutti gli altri: MUMMIA, per l’appunto

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ANTICO EGITTO – TRADIZIONI E CURIOSITA’

Fior di Loto

Fior  di Loto

Proprio all’ingresso della prima delle grandi Sale della Statuaria, al Museo Egizio di Torino, c’è una splendida colonna papiriforme ornata alla base da un fior di loto chiuso e in alto da un fior di loto aperto.
Osservandola, ogni volta mi viene in mente un episodio riportato da:  “Le Istruzioni di Amenemeth”
(Libri della Sapienza).

Amenemhet era un Sovrano con qualità di scriba e teneva una lezione a suo figlio sulla misericordia del  Nether- Wa,  Dio-Unico,  verso gli uomini.
Dopo un po’, il ragazzo, piuttosto scettico, gli fece una domanda:
“Signore, – disse –  Come può Dio occuparsi di tutti gli uomini che sono tanti, tanti e poi tanti ancora ed ancora di più?”
Dopo un attimo di riflessione, Amenemhet chiese:
“Figlio, hai mai contemplato un fior di loto?”
“L’ho fatto, sì.” rispose l’altro con accento un po’ stupito.
“Lo sai, figlio, che ogni sera il LunareThot provvede a chiudere ognuno dei petali del calice del fior di loto, affinché né insetti, né animali, né vento o acqua lo danneggi? E lo sai che ogni mattino il Solare Horo provvede a riaprire quei petali per ridare al fiore vita e bellezza?…  Se due Divinità importanti come Thot ed Horo si occupano di un umile fiore, come puoi dubitare dell’interessamento di Dio verso l’uomo, la più importante ed amata delle sue creature?”

Cosa dire di insegnamenti come questo!… E’ così attuale, che sembra uscito dalle labbra di un Pontefice.

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ANTICO EGITTO – TRADIZIONI E CURIOSITA’

Perché gli Antichi Egizi si facevano ritrarre di lato?

Perché gli Antichi Egizi si facevano ritrarre di lato?

Le teorie più strampalate sono state formulate al riguardo: tecniche di pittura, stile… perfino una forma di danza.
Molti cineasti, infatti, si sono sbizzarriti a mettere una a fianco dell’altra, ballerine con braccia per aria, una tesa in avanti e l’altra all’indietro.
In realtà, la spiegazione è assai più profonda.
Intanto, si fa notare che, a ben osservare, le pitture ritraggono le persone in ogni angolazione del corpo: fianco, gambe e braccia tese in avanti e indietro, testa e busto con rotazione di 45° circa…
Perché, dunque, quella particolare posa?
Durante le Cerimonie Funebri si celebravano Rituali Magici per consentire al defunto di “risorgere” e tornare in vita, rituali che venivano officiati dal sacerdote sem (riconoscibile per la pelle di leopardo in spalla) e dal sacerdote chery-webb (riconoscibile per la stola bianca).
Il primo si serviva di strumenti magici, come l’ur-reka, con cui toccava ogni singola parte del corpo e il secondo accompagnava quei gesti con formule magiche, le He-Kau.
Si praticava il rito direttamente sulla mummia del defunto o sulla statua che lo rappresentava, ma anche sulle pitture parietali della tomba.
Nei primi due casi era facile toccare il corpo in ogni sua parte: braccia, gambe, testata, busto… Più difficile, invece, con le pitture, in cui, non tutte le parti del corpo erano visibili.
Per poterle raggiungere, bisognava esporre quelle nascoste: la parte interna di gambe e braccia, ad esempio, ed ecco la necessità di tenderle in avanti o indietro. Per mostrare sia il petto che le spalle, bisognava fare una piccola torsione del busto, così come per la testa, se si voleva evidenziare sia la faccia che la nuca.
Niente danze, dunque, ma solo la necessità di rendere visibili le varie parti del corpo per procedere al Rito.
Interessante, vero?

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ANTICO EGITTO – TRADIZIONI E CURIOSITA’

LA SCHIAVITU’  IN EGITTO
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Il falso storico più eccellente della Storia dell’uomo è senza dubbio la schiavitù in Egitto. La schiavitù degli Ebrei. Si legge nella Bibbia – Esodo
“Torme di schiavi assetati muovono giganteschi blocchi di pietra e schiene annerite dal sole e piagate dalle fruste si curvano nello sforzo immane; talvolta qualcuno cade sfinito dalla fatica per non rialzarsi mai più, mentre le gigantesche piramidi vengono innalzate lentamente…” e ancora:
“Vi sottrarrò ai duri lavori di cui vi gravano gli Egiziani, vi emanciperò dalla loro schiavitù”
Per secoli e generazioni si è prestato fede a questi “equivoci” E come sottrarsi a questa “verità”? Sulla Bibbia si giurava e da qualche parte si giura ancora. Da sempre si è creduto ed è stato fatto credere che la società egizia fosse una società schiavista: proveniva da libri, testi scolastici, incontri religiosi e da qualunque altra fonte.
I nostri occhi si sono riempiti di scene di sadismo e crudeltà, quelle riportate dalle illustrazioni di libri, da quadri di famosi pittori, film hollywoodiani e i nostri cuori si sono riempiti di compassione e di furore. Sprecata la prima, ingiusto il secondo.
Ma su che cosa ha fatto affidamento l’uomo comune, ma soprattutto lo storico e lo studioso, per così lungo tempo, nel sostenere questa affermazione? Su un libro che racconta che l’uomo è stato creato con un pugno di terra e che parla di un certo Giosué che ferma il sole con un gesto e un ordine.
Si riuscirà mai a rendere giustizia ad uno dei popoli antichi più civili, ma vilipeso ? Sono in molti a credere ancora che davvero Giosuè abbia comandato al Sole di fermarsi e che in Egitto davvero esistesse la schiavitù.
Oppure non sappiamo che cosa significa il termine schiavitù? Ecco cosa recita il dizionario: ” Condizione di chi è giuridicamente considerato come proprietà privata e quindi privo di ogni diritto umano e completamente soggetto alla volontà e all’arbitrio del proprietario.”
Senza addentrarci nella questione sotto l’aspetto antropologico o giuridico, una cosa la possiamo affermare, riguardo gli schiavi ebrei in Egitto: se uno schiavo forniva il lavoro senza trarne compenso alcuno, come potevano possedere… e ne possedevano, dice la Bibbia… beni e perfino servi?
Forse la risposta c’è! Forse perchè il lavoro di quegli “schiavi” era compensato da una retribuzione, un salario. Non solo. Quel lavoro era anche “tutelato” da un contratto: un contratto di lavoro. Non certo come quello dei giorni nostri. Diverso.Come diverso è il nostro concetto di “schiavo” rispetto a quello dell’antichità.
Mai, nell’Antico Egitto, proprio in quello più remoto, gli uomini furono considerati e trattati come merce che si potesse acquistare o vendere. Per indicarli, il termine era “hem”, che significa servo. I lavoratori, semplici operai oppure personale qualificato, beneficiavano perfino di assistenza medica.
C’erano, poi, altri lavoratori, nella qualità di prigionieri di guerra o di altra condizione che pestavano gratuitamente il loro lavoro  e questi sono fatti assodati. Ma non era di certo una condizione che potesse chiamarsi schiavitù e la società non era certo schiavista. Si sa, invece, che questa seconda categoria di lavoratori, i servi., finivano sempre per integrarsi nella società stessa.
 Che fossero mano d’opera o tecnici qualificati, gli operai beneficiavano di un contratto di lavoro e di un salario corrispondente alle loro competenze.
Varia la documentazione che riporta lamentele per mancato pagamento della retribuzione, per la richiesta di permessi e altro ancora, tutte situazioni assolutamente incompatibili con uno stato o condizione di schiavitù. In un papiro si parla addirittura di un operaio che chiede un permesso per curare l’asino ammalato e di un altro che chiede un alloggio più confortevole per la moglie che ha appena partorito.
A diffondere la diceria che la costruzione  delle Piramidi si deve solo al lavoro degli schiavi, furono, soprattutto storici greci, come Erodoto…che però parlavano di qualcosa accaduto due mila anni prima. Oggi sappiamo che a costruire templi e palazzi non furono schiavi, ma lavoratori regolari, artigiani e contadini e personale qualificato, che percepiva un salario in natura corrispondente al lavoro ed alla qualifica.
Quanto agli ebrei costretti a lavorare sotto la sferza di capomastri sadici ed aguzzini, mentre alle spalle la Piramide lentamente si innalzava, è assolutamente falso: gli ebrei sono entrati in Egitto in epoca assai posteriore. Presumibilmente durante la XII Dinastia, come molti Asiatici,. Entrarono in massa, e come gli altri asiatici,  inizialmente lavorarono come manodopera a buon mercato;  in seguito riuscirono anche ad occupare mansioni di responsabilità. L’episodio di Giuseppe ne è uno degli esempi più lampanti.
A causa della loro mentalità e religione, assai diverse da quella degli egizi,  non si inserirono mai nella società del paese che li ospitava. Erano arrivati bisognosi e quando non ci fu più bisogno, decisero di lasciare il Paese che li aveva ospitati.  Probabilmente  non onorando quei contratti di lavoro che avevano stipulato,  che li faceva sentire schiavi perchè costretti ad un lavoro che non desideravano più fare. Questo ai tempi del faraone Ramesse II  e di suo figlio Merempthha,.
E allora, chi erano  i lavoratori “ebrei” citati nella Bibbia, costretti a lavorare alle Piramidi? Probabilmente popolazioni nomadi asiatiche che si spostavano lungo i confini egizi e che talvolta sconfinavano prestando occasionalmente la loro opera. Non è a questo tipo di prestazione, però, che si riferisce la documentazione egizia che ci è pervenuta, dove non si fa mai cenno a “schiavi” nella costruzione di templi e palazzi e monumenti, bensì ad una prestazione volontaria  della popolazione, soprattutto contadini, durante il periodo di inondazione. Tre mesi, per la verità. Un obbligo per tutta la popolazione.
Assodato che la schiavitù, intesa come assenza totale di diritti legali, non esisteva in Egitto, quale era la condizione di coloro che occupavano l’ultimo grado della piramide sociale? Erano uomini e donne, spesso prigionieri di guerra o persone estremamente indigenti, privati della libertà, che si occupavano dei lavori più umili, ma che si vedevano riconosciuti i diritti più elementari.
Il loro status naturalmente mutò con il tempo. Così, nell’antico Regno, nell’epoca della costruzione delle piramidi, il lavoro era volontario, fatta eccezione dei pochi prigionieri di guerra, di razza libica e nubiana.
I primi “schiavi”comparvero durante il primo Periodo Intermedio, in arrivo dai mercato asiatici di schiavi, ma si dovette aspettare il Medio Impero per vedere le prime leggi in favore degli schiavi:con la disgregazione dello Stato Faraonico e il potere quasi illimitato dei funzionari di stato, sicuramente si verificarono degli abusi.Si comincia a parlare apertamente di schiavi, solo con la fine di questo periodo, ma un vero concetto di schiavitù lo si accettò solo con il Nuovo Impero. In questo periodo, infatti, affluì nel Paese una massa di prigionieri i quali col tempo si integrarono divenendo ad ogni effetto membri della società del Paese che li ospitava.
In quest’epoca, tutte le classi sociali potevano avere schiavi.