Una cultura nell’arte orafa. I barbari erano particolarmente analfabeti, ma lasciarono la loro testimonianza della ricchezza della loro cultura in questi oggetti di metallo di alto artigianato, che essi seppellivano nelle tombe o in nascondigli. Questi tesori erano destinati a fornire ai re morti splendidi corredi per l’aldilà . Nel tentativo di ravvivare la grigia esistenza di quei tempi, gli artisti sfruttavano al massimo le possibilità cromatiche, incastonando granati e vetro colorato negli oggetti dorati e di metallo prezioso che producevano. Gli oggetti che ci sono pervenuti dimostrano labilità degli orafi: essi acquisirono tecniche nuove, lo stile e il gusto cambiarono, ma rimase la predilezione tradizionale per gli oggetti rilucenti e per le intricate decorazioni riproducenti animali.
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IL MUSEO EGIZIO di TORINO
I racconti dei viaggiatori, i tanti reperti che continuavano ad arrivare nelle ricche dimore di collezionisti e studiosi, quel fenomeno culturale conosciuto con il nome di Orientalismo e la spedizione napoleonica in Egitto, crearono un eccezionale interesse per questa cultura. Napoleone, grande estimatore di antichità, si prefiggeva lo studio e la catalogazione di tutti i monumenti distribuiti sul territorio.
Inizialmente fu solo la ricerca e la caccia all’oggetto bello, raro e prezioso, ma all’inizio del nostro secolo la ricerca divenne più consapevole:un vero studio di quella straordinaria civiltà attraverso le testimonianze del suo passato.
Il Museo di Torino ebbe una parte importantissima in quella ricerca. Fu il primo Museo di egittologia al mondo; seguirono poi quello del Louvre, Berlino, Londra e anche de Il Cairo.
Nacque nel 1824 , per merito di Carlo Felice di Savoia , grande studioso ed estimatore di reperti antichi , il quale acquistò una prestigiosa collezione di reperti dal console di Francia in Egitto, Bernardino Drovetti. Altri reperti, donati sempre dalla Casa Savoia arricchirono presto quella collezione , poi arrivarono altre collezioni. Importanti quelle dell’archeologo Ernesto Schiapparelli, direttore del Museo, tra il 1900 -1920, provenienti dai materiali dei suoi stessi scavi in Egitto.
Importantissimo anche il dono, da parte dell’Egitto al Museo di Torino, del Tempietto di Ellesiia, in riconoscimento dello straordinario lavoro di salvataggio dei monumenti, da parte della equipe italiana, dopo la costruzione della diga di Assuan che minacciavano di sommergere con le sue acque quelle meraviglie del passato.
La ricchezza e l’importanza dei tanti reperti presenti al Museo di Torino è tale da costituire con la loro esposizione, una straordinaria lettura della storia e degli usi e costumi di questo popolo unico e particolare.
” TESORI E SAPORI DELLA MIA SICILIA ” di Tiziana Misseri
” TESORI E SAPORI DELLA MIA SICILIA ”
Quando a causa del lavoro viviamo in una grande metropoli, lontani dalla propria terra, la nostalgia fa capolino nei nostri cuori, ed
anche le piccole cose diventano ricordi importanti, quelli che io chiamo ricordi del cuore : il profumo, i sapori ,i colori e perfino i rumori !
Quando sono lontana dalla mia Palermo,la cosa che mi manca di piú, é passeggiare al centro storico , all’ora di pranzo tutto sembra rallentare,le voci nei cortili iniziano ad affievolirsi, e arriva la sigla del tgs ,le mamme che sollecitano i bambini a sedere a tavola, il rumore delle stoviglie,e un odore dolcissimo pervade i vicoli : la salsa di pomodoro fresco e melenzane fritte,un profumo che ti ricorda che sei a casa.
Per questa nostalgia, oggi vi propongo ” vicoli e pasta alla norma”.
La pasta alla norma, un delizioso primo piatto, pasta ( di solito maccheroni) con pomodoro fresco,melenzane fritte , ricotta salata e basilico, un tripudio di sapori.
Questo piatto ha origini catanesi, si pensa abbia preso il nome da un’esclamazione fatta da un famoso commediografo ( Nino Martoglio ), che assaggiando questo piatto disse : chista é na vera norma ! Paragonando il piatto alla famosa opera di Bellini. ☀️
L’antro della Sibilla a Marsala (antica Lilybeo) di Alberto di Girolamo
Nel XIV secolo i Gesuiti costruirono appena fuori città, su capo Boeo, la chiesa (foto 1) dedicata a San Giovanni Battista, compatrono della città. La costruirono in quel punto per inglobare una grotta, scavata nella roccia sottostante, che i primi cristiani lilybetani avevano utilizzato come battistero.
La grotta si trova a m.4,80 sotto il pavimento della chiesa e vi si accede tramite gradini scolpiti nel tufo (foto 2). La scalinata porta in un ambiente circolare sormontato da una bassa cupola(foto 3) il cui lucernaio è radente al pavimento della chiesa. Al centro dello spazio circolare c’è una piccola vasca quadrata (foto 4) sempre piena d’acqua perché alimentata, attraverso una canaletta, da una sorgente che si trova in un vano laterale. La fonte è nascosta al visitatore da un altarino in pietra sul quale poggia una statua di alabastro di scuola gaginesca raffigurante S. Giovanni Battista (foto 4). Sul vano centrale circolare, si affaccia anche un secondo ambiente irregolare che presenta una parete absidata e una sorta di gradino (foto 5). Le pareti della grotta erano decorate con pitture, quasi tutte scomparse e il pavimento aveva dei mosaici del III secolo di cui rimangono poche tracce.
Probabilmente l’antro fu, in epoca romana, un ninfeo o “specus aestivus” per la sua frescura, successivamente utilizzato dai primi cristiani come fonte battesimale per la presenza della sorgente. Questa ipotesi è confermata dagli affreschi, appartenenti alla simbologia cristiana, che adornavano le pareti.
Questo è quello che dice la storia, poi ci sono le leggende.
Secondo la tradizione la grotta fu nel periodo precristiano dimora della Sibilla Cumana o Sicula, da qui il nome “Grotta della Sibilla”. Secondo questa leggenda la Sibilla non lasciava mai la grotta e il gradino entro l’incavo orientato a ovest costituiva il suo lettuccio (foto 5). Chi chiedeva il vaticinio alla profetessa calava nel pozzo, attraverso il lucernario, delle offerte assieme alla richiesta del responso.
Un’altra leggenda vuole che Ulisse si sia dissetato alla fonte della Sibilla e che questa gli abbia predetto il futuro.
Altre remote leggende narrano che la Sibilla fosse in realtà una sposa, caduta all’interno del pozzo e lì rimasta imprigionata.
L’antica grotta è segnalata da Diodoro Siculo (90 – 27 a.C.) e poi da Gaio Giulio Solino (III SEC.). Stranamente non ne parla Cicerone che venne a Lilybeo come questore tra il 76 e il 75.
Comunque dell’uso pagano della grotta non si ha alcuna testimonianza archeologica.
NOTA PER IL VISITATORE: la chiesa rimane sempre chiusa eccetto il 24 giugno quando si festeggia la natività di San Giovanni Battista (foto 6). Per visitarla negli altri giorni dell’anno bisogna rivolgersi alla parrocchia della Chiesa Madre.
TESORI e SAPORI della mia SICILIA – La chiesa di San Cataldo… di Tiziana MISSERI
Buongiorno amici, una passeggiata tra tesori e sapori della meravigliosa Palermo. Ad un gioiello come la chiesa di ” San Cataldo” accosteremo un maestoso e sublime dolce ” La cassata siciliana”.
Nel cuore di Palermo, in piazza Bellini, sorge la chiesa di San Cataldo (dal 2015 Patrimonio dell’Unesco)eretta nel XII secolo sorge dominante accanto ad un’altra meravigliosa chiesa ( la chiesa della Martorana ) su un terrazzo. Esternamente si presenta con un paramento murario in arenaria,impreziosito da intagli di arcate e ghiere traforate ( di influenza islamica )e tre solenni cupole rosse con calotta liscia.All’interno tre corte navate a sei colonne,la navata centrale costituita da tre campate coperte da cupole,sulle campate tre absidi,un piccolo gioiello che rappresenta la solarità della Sicilia.
Anche un dolce riesce a rappresentare la solarità e la magia della nostra isola, la deliziosa ” Cassata siciliana”
Un dolce tramandato da dieci secoli,che racconta la storia della Sicilia sottomessa a decine di invasioni straniere,cogliendo il meglio di ogni dominazione. Si narra che nasce da una miscela di ricotta fresca di pecora e canne da zucchero o miele,fatta da un contadino arabo che diede al dolce la forma di una scodella, e alla domanda su cosa stesse facendo rispose : ” qas ‘at ovvero scodella.
Successivamente i cuochi della corte dell’emiro di piazza Kalsa, decisero di elaborare il dolce arrotolandolo in un involucro di pasta frolla ( la cassata al forno),anche le monache del convento della Martorana di Palermo contribuirono all’elaborazione della cassata con l’invenzione della martorana ( pasta reale ) a base di farina di mandorle con cui venne decorata la cassata. Da Genova nel 700 arriva il pan di Spagna che prende il posto della pasta frolla, alla ricotta vennero aggiunte scaglie di cioccolata,durante il periodo barocco la cassata viene decorata, si aggiunse anche la frutta candita, ed ecco la cassata siciliana un tripudio di sapori odori, e colori che aprono il nostro cuore con tanta allegria !
MESSINA, l’INDOMITA
Conosciamo Messina per essere “… la terra dei limoni in fiore, dove le arance d’oro splendono tra le foglie scure ove dal cielo azzurro spira un mite vento…” come scrisse il Goethe, ma Messina si è anche guadagnato il titolo di Indomita, per le numerose, terribili sventure che la colpirono durante il corso della sua storia.
Su questa città si abbatté un numero incredibile di catastrofi e sciagure in cui rifulsero il valore e il coraggio della sua gente. Ricordiamo l’assedio, nel 1282, dell’esercito di Carlo d’Angiò, uno degli episodi più aspri delle guerre dei Vespri Siciliani. Ebbe luogo tra giugno a settembre, per il controllo dello Stretto di Messina, ma alla fine, le truppe angioine furono costrette a ritirarsi. Seguì, nel 1674, un saccheggio, assai a pesante e disastroso, ad opera delle truppe spagnole. Il popolo messinese, deciso a rendersi definitivamente indipendenti dalla dominazione spagnola ed a fare di Messina una sorta di Repubblica Marinara come Venezia e Genova, si sollevò contro la Spagna. Si decise di chiedere l’intervento francese e il re di Francia Luigi XIV accettò ed inviò le sue truppe sul territorio. Dopo alterne vicende, però, Spagna e Francia finirono per firmare un Trattato di Pace che pose fine alla guerra e i francesi si ritirarono da Messina. Il rientro degli spagnoli fu disastroso per la città la quale cedette sotto il pesantissimo saccheggio delle truppe spagnole, spinte da sentimento di odio e vendetta e alla fine, Messina venne dichiarata città civilmente morta.
Quando non era la soldataglia a devastare, ecco abbattersi sulla città catastrofi e calamità naturali, come l’epidemia di peste del 1743 che decimò la popolazione ed arrestò ogni attività, a seguito dell’arrivo in porto di un naviglio genovese con un cadavere a bordo. Ma anche il terremoto del 1908, che la distrusse quasi completamente, fu una tremenda calamità passata alla storia.
Tornando indietro nel tempo, la città di Messina si rese protagonista di uno degli episodi più sofferti della sua gloriosa esistenza: la resa alla flotta di Ferdinando II di Borbone. Era il 1847 e l’Italia era in pieno Risorgimento. Messina, da sempre, fu intollerante al giogo borbonico ed fu una delle prime città siciliane ad insorgere. La risposta di Ferdinando di Borbone fu durissima e spietata. Per mesi la cinse con un assedio serrato, prodotto dal fuoco di 400 bocche di cannone, fino a quando, nel settembre del ’48, la città, stremata, si arrese. Quello, fu uno degli episodi più glorioso del nostro Risogimento: insurrezione e resistenza a cui partecipò l’intera popolazione: donne, uomini, ragazzi. Perfino suore e monaci corsero alle armi insieme ai cittadini.
Numerosi gli episodi di eroismo. Come quello dei tanti ragazzi che sfidavamo la morte strappando le micce accese ai cannoni. Un nome rifulse in tanto ardimento, quello di Rosa Donato, una ragazza del popolo che perse la vita durante un’azione davvero temeraria.. Allo scopo di distruggere un deposito di munizioni, la ragazza si avvicinò con una miccia troppo al deposito e saltò in aria prima di potersi mettere in salvo.
Arresasi alle bombe di Re Ferdinando, la città divenne preda del più devastante saccheggio che la storia di tutti i tempi ricordi e il sovrano borbonico si guadagnò l’ignominioso nome di “Re Bomba”.
La terra delle Sirene – POMPEI, la città risorta dalle ceneri
Era l’epoca in cui l’uomo divinizzava il fulmine che colpisce, la fiamma che divora, la nube che si scioglie, il vento che abbatte, la fiera che dilania… una religione fatta più di paura che di pietà. Era l’epoca in cui si subiva il fascino della grandiosa bellezza del creato e si cercava, con il mito, di spiegare la pericolosa potenza degli elementi.
Pompei! Sconvolta dalla pericolosa potenza degli elementi, ma che rinasce dalle sue ceneri. Come una Fenice. E rinascere vuol dire tornare a vivere. Non soltanto ruderi e resti di edifici, ma una città… anzi due, con Ercolano. Due città con edifici integri, vie, piazze, passaggi pedonali, marciapiedi, fontane pubbliche, negozi di commercianti con forme del pane ancora sui banconi… testimonianze di vita vissuta.
Addentrandosi nelle vie si ha la sensazione di incontrarsi e scontrarsi con gente indaffarata, bighe in corsa… tra strade, marciapiedi, giardini, botteghe, Anfiteatro, Foro, Terme, abitazioni… Tante le abitazioni. La più suggestiva, forse, quella da cui vogliamo partire:
LA VILLA DEI MISTERI
E’ una villa suburbana di epoca romana, a pochi metri fuori le mura della città di Pompei; Costruita nel II secolo a.C. e successivamente ampliata e abbellita, era una villa urbana o casa di campagna o, più precisamente , una villa d’otium, per trascorrervi delle ore liete e di piacere. Situata in un posizione panoramica e dotata di ampi saloni, giardini pensili ed un’infilata di archi e di un criptoportico, godeva di una eccellente visuale,ma, a causa dei numerosi terremoti, dovette essere trasformata in villa rustica. Di questa villa, la cui bellezza risiede soprattutto nei meravigliosi affreschi, in realtà lo scavo non è stato ancora del tutto completato e si ignora, perciò, quali altri “misteri” possa gelosamente custodire.
Quelli che conosciamo, gli splendidi affreschi riguardanti diversi periodi storici, sono veramente splendidi e suggestivi. Nella sala del triclinium, al piano terra, le scene affrescate di rosso, raffigurano “Riti Misterici” , in quella del tablinum, al piano superiore, le pareti sono affrescate di nero e raffigurano scene ispirate alla pittura egizia ed in altre sale ancora, si incontrano scene ispirate alla pittura greca. Quella che desta maggiore curiosità, meraviglia ed ammirazione, è quella del triclinio la cui simbologia è ancora oggi materia di discussione: celebra i Misteri eleusini.
Ma che cosa erano I Riti Misterici o Misteri Eleusini?
Erano culti ricchi di simbologia, legati al mistero della fertilità, della nascita e della morte e non solo in relazione all’agricoltura, ma anche come speranza di una vita migliore oltre la morte. Di origine pre-ellenica, si svolgevano a Eleusi, nell’Attica, e poi si estesero a tutta la Grecia, nonché alle colonie A Roma ebbero notevole diffusione come culto di Cerere-Proserpina.
Quesri misteri rappresentavano il mito del ratto di Proserpina strappata alla madre Cerere dal re degli Inferi, Plutone, in un ciclo di tre fasi: la Discesa negli Inferi – la Ricerca – l’Ascesa la cui acme era la “ricerca” di Proserpina e il suo ricongiungimento con la madre.
Nel lungo vagabondare alla ricerca della figlia, raccontano leggenda e mito, Cerere si fermò a Eleusi dove fu confortata dalla figlia del re e poi condotta al palazzo con tutti gli onori. In segno di riconoscenza la Dea donò Sovrano un chicco di grano, fino ad allora sconosciuto, dando cosi inizio all’agricoltura.
Come finì la contesa? Giove, commosso dal suo dolore, permise a Proserpina di tornare sulla terra per sei mesi all’anno: come il seme del grano che dopo un periodo sottoterra appare alla luce.
I riti e le cerimonie erano tenuti in grande segretezza e comprendevano visioni ed allucinazioni. Alcuni studiosi ritengono che fossero allucinazioni indotte. Si usava, infatti, consumare durante il rito del pane a base di segala cornuta, segala,cioè, contaminata da un certo fungo
Negli affreschi di Pompei si notano molti particolari, come la donna occupata a pettinarsi davanti a specchi sorretti da amorini, lamatrona seduta, la donna velata, la sacerdotessa e ai suoi piedi un fanciullo. E poi, la scena dell’agape: una sacerdotessa che versa del vino su un ramo di mirto, con accanto un sileno che suona la lira. E ancora, una scena di divinazione attraverso uno specchio, oggetto ritenuto magico, in cui si vede un sacerdote che porge a un giovane una coppa in cui ci si può specchiare.
Ora, mentre cadevano le pomici, qualcuno lasciò in fretta e furia la città; altri, del tutto inconsapevoli di ciò che stava accadendo, preferirono nascondersi nelle cantine e nei locali più riparati. Morirono tutti, sotto le macerie i primi e soffocati dal calore e dai gas tossici, gli altri, quando il primo grosso flusso lavico raggiunse la città.
Tutto era cominciato al mattino, con emissione di cenere e flussi di magma che correvano al suolo scendendo veloci lungo i fianchi del vulcano, travolgendo mura e intere pareti, tetti e solai, ad una velocità prossima ai 100 km orari, trascinando ogni tipo di materiale. Quando si placò, la zona s’ era trasformata in un deserto grigio.
Questo sulla terraferma, ma cosa accadde in mare? La caduta in mare del magma provocò un maremoto e le acque presero a ribollire e non ci fu scampo per nessuno: nè per quelli in spiaggia e nè per quelli sulle barche, nel tentativo disperato di fuga. Le acque delle falde sotterranee si riversarono in superficie provocando nuove esplosioni. Solo verso la fine del secondo giorno il mostro cominciò a placarsi. L’eruzione era durata intorno a 25 ore.
Caratterizzata da terremoti, nubi ardenti e tossiche, maremoti e sciami sismici, la storia fu raccontata da Plinio il giovane in una lettera a Tacito. Plinio, ancora ragazzo, fu testimone oculare del cataclisma. All’epoca si trovava a Miseno, ospite dello zio, Plinio il Vecchio, che fu fra le vittima di quella tragedia. Un resoconto, quello realizzato sia daPlinio il Vecchio, che ancora oggi il termine pliniano viene utilizzato nella vulcanologia. Plinio, che si a trovava ad una distanza di 21 km dal vulcano, poté osservare la colonna eruttiva in tutto il suo sviluppo, altissima e candida, ma sporca qua e là per la presenza di cenere; quella colonna piovve sulla città seppellendola sotto uno strato di 4 metri.
Nella Basilica, situata di fronte, si svolgeva ogni tipo di affare ed era sede anche del tribunale; rettangolare, divisa in tre navate con 28 colonne fu completamente sepolta sotto la coltre di cenere.
Una tappa obbligatoria sono sicuramente le Terme , divise in due sezioni, per i maschi e le femmine e poi la Casa del Fauno e La Casa dei Dioscuri, quella di Meleagro e la Casa di Apollo, con affreschi del dio Apollo e poi la Casa del Poeta Tragico, la Casa di Pansa, di Sallustio. Una visitina alla Casa delle Lupanare, dei Citaristi. E ancora, la Casa dei Ceii, la Casa del Menandro, la Casa di Giulio Polibio, la Casa di Trebio Valente e, naturalmente l’Anfiteatro, capace di accogliere ventimila spettatori.
BELLA ITALIA… nella terra delle Sirene – AMALFI
”
Amalfi… dalla bellezza mozzafiato… e dalla origine mitologica.
Mitologia… ma che cos’è la Mitologia? E’ come una magica tela su cui si proiettano le scene di un fantastico poema: le leggi del Fato, la bellezza del creato, la frenesia dei Misteri, gli incanti della bellezza e della forza fisica, il canto di Apollo e il riso di Dioniso, le risate delle Ninfe, le urla delle Baccanti, il canto delle sirene… Nella storia di Amalfi.. di questa splendida perla del mare, c’è davvero tutto questo: l’incanto della natura, Dei ed eroi, Ninfe e Sirene… e la sua origine si perde tra le cime… dell’Olimpo.
Proprio dall’Olimpo scende Ercole, il figlio del divino Zeus e della mortale Alcmena e nel suo vagabondare per l’Italia, compiuta la sua Decima Impresa, incontra la bellissima ninfa Amalfi di cui si innamora perdutamente, tanto da volerla sposare. Il Fato avverso, però, non glielo consente. La bellissima Amalfi muore improvvisamente e l’eroe, afflitto ed inconsolabile non si dà pace. Decide allora di cercare per lei e per il suo riposo eterno, il luogo più bello del creato.
Lo trova lungo una costa dalla bellezza incomparabile, dove il mare e il cielo si congiungono in un orizzonte placido e sereno. Qui, in un villaggio di pescatori, adagiato in una natura rigogliosa e di incantevole bellezza, l’eroe si ferma a seppellre la povera ninfa, adornando quel posto già baciato dalla natura, con degli alberi carichi di un frutto rubato al Giardino delle Esperidi, profumato e del colore del sole; quel frutto, il limone, diventa l’orgoglio del villaggio, che l’eroebattezza con il nome dell’amata: AMALF
Nel 1490 Giovanna d’Aragona sposò Alfonso Piccolomini, erede del duca di Amalfi che la lasciò presto vedova e con due figli, Caterina e Alfonso.
Al servizio della duchessa arrivò Antonio Bologna, un maggiordomo colto ed avvenente e tra i due scoppiò immediatamente la passione. Si sposarono ed ebbero tre figli, ma il loro matrimonio fu tenuto nascosto per timore della reazione della famiglia e soprattutto dei due fratelli di lei, il cardinale Lodovico e il marchese Carlo. Una reazione violentissima, infatti, allorquando i due fratelli ne vennero a conoscenza. I due infatti fecero assassinare il povero Antonio fuggito, a Milano e rinchiusero la Duchessa, assieme alla fedele cameriera ed ai tre figlioletti, nella Torre dello Ziro, lasciandoli morire di fame o facendoli trucidare secondo un’altra versione dei fatti.
Sempre la leggenda, narra che lo spirito della infelice Regina vaghi, inquieto, tra gli spalti della torre.
Si narra che il pirata Barbarossa stesse preparando un attacco alla città con l’intento di saccheggiarla. Dalle torri di guardia, le sentinelle diedero l’allarme e alcuni cittadini corsero immediatamente sulla tomba di Sant’Andrea per implorare il suo soccorso. Ed ecco che un violentissimo vento trascinò al largo le navi dei pirati. Ma non finì qui. Un fulmine, annunciato da un tuono fragoroso, sconquassò l’aria, ed una terribile tempesta si abbattè sul mare distruggendo la flotta pirata ed uccidendo lo stesso Barbarossa.
Amalfi, si sa, era una delle più importanti Repubbliche Marinare d’Italia – Questa la sua gloriosa bandiera.
Secondo le cronache più antiche, Amalfi fu fondata da un gruppo di Romani naufragati, intorno al V secolo dopo Cristo, sulle coste pugliesi; erano in fuga dalle invasioni barbarica. Proseguendo verso nord, fondarono in territorio lucano la cittadina di Melphi e infine raggiunsero la costa campana dove si stabilirono in un villaggio che chiamarono Amalfi. Per la sua felice posizione, la maggior parte delle sue attività erano legate al commercio e tutti i suoi abitanti, compresi i nobili, vi si interessavano attivamente. I floridi commerci erano regolamenati da norme contenute in quelle che erano conosciute come le Tavole Amalfitane.
Precursori ed amanti di ogni novità, gli amalfitani furono i primi navigatori ad usare la bussola, anche se qualcuno erroneamente ritiene che ne fossero anche gli inventori. L’inventore pare sia stato , invece, un certo Giovanni Gioia, ma secondo taluni pareri, i marinai del mediterraneo la usavano già da tempo.
L’ABBAZIA di MONTICCHIO in LUCANIA
Uno splendido diamante in un serto di smeraldi. Così appare L’Abbazia di Monticchio. Bianca, imponente, elegante, incastonata nella parete del Monte Vulture, sovrasta due stupefacenti laghi, bocche di un antichissimo vulcano .
Immerso in uno scenario spettacolare, come sospeso sopra un costone di roccia che si affaccia su uno di quei laghetti, il piccolo, ed in una atmosfera di pace ed assoluta tranquillità, questo gioiello di architettura lucano-bizantino-normanna, ha richiamato da sempre visitatori da ogni parte della penisola. In esso si fondono, con mirabile armonia, elementi religiosi e culturali in cui storia leggenda e tradizioni si amalgamano perfettamente.
Alle vicissitudini indigene si alternarono, e spesso si fusero, quelle dei conquistatori, molti dei quali, come Longobardi, Bizantini, Normanni, vi lasciarono incancellabili impronte, resti di passate civiltà e differenti culture.
Anfratti e grotte, che screpolano la collina e la campagna, furono ricetto per trogloditi ed eremiti, prescritti e perseguitati politici e religiosi, muti testimoni del succedersi di genti e vicende politiche storiche e religiose.
Fra i tanti, eremiti e fuggiaschi, ne ricordiamo alcuni: San Vitale, tenace assertore del culto di San Michele Arcangelo, i monaci basiliani, primitivi monaci della chiesa greco-ortodossa, ferocemente perseguitata da papa Leone III,
In principio, grotte e nicchie, e in particolare la nicchia bizantina eretta dai monaci basiliani, ospitarono il culto di San Michele Arcangelo e coloro i quali ve lo avevano introdotto;successivamente, richiamati dalla topografia dei luoghi, che si prestavano ad ospitare eremi e conventi, monaci di altri ordini vi arrivarono per gradi.
I Normanni, più di altri popoli, scrissero in questa regione un capitolo molto importante della loro storia. Artefice fu quel Roberto Guiscardo, riconosciuto da papa NicolòII, Duca di Puglia, Calabria e Sicilia che scacciò i Bizantini dall’Italia.
Fu proprio di quel periodo la costruzione principale del complesso e la consacrazione ufficiale col nome di Abbazia di San Michele Arcangelo da parte del pontefice Nicolò II in viaggio a Roma, in occasione del Concilio del 1059.
Risalente intorno all’VIII secolo d.C., la struttura originaria poggia su una grotta scavata nel tufo ed abitata da monaci basiliani, nei pressi della quale sono stati ritrovati ex-voto risalenti al IV-III secolo a.C.; occupata prima dai benedettini, passò intorno al 145o ai monaci cappuccini , che vi fondarono anche una ben fornita biblioteca, e infine, intorno al 1780, passò all’ordine militare costantiniano.
Benedettini, cappuccini e monaci di ordini minori, ora protetti ora osteggiati, in un carosello di abbandoni e ritorni, trascinarono le vicende fino alla soglia del XVIII secolo. Solo intorno al 1780, per opera e merito dei monaci cappuccini e in particolare del priore, frà Michelangelo d Rionero, l’Abbazia venne ristrutturata ed ampliata così come la conosciamo noi. A più piani, una chiesa risalente al settecento, la cappella e la Grotta dell’Angelo, dedicata a S. Michele e con affreschi risalenti alla metà del XI secolo, il convento fu prima luogo scelto dai monaci basiliani, come si è già detto, per il cenobio eremitico per poi diventare rifugio dei monaci benedettini della sottostante Abbazia di Sant’Ippolito a seguito del terremoto del 1456.
I
BELLA ITALIA… nella terra delle Sirene – AMALFI”
Amalfi… dalla bellezza mozzafiato… e dalla origine mitologica. Mitologia… ma che cos’è la Mitologia? E’ come una magica tela su cui si proiettano le scene di un fantastico poema: le leggi del Fato, la bellezza del creato, la frenesia dei Misteri, gli incanti della bellezza e della forza fisica, il canto di Apollo e il riso di Dioniso, le risate delle Ninfe, le urla delle Baccanti, il canto delle sirene… Nella storia di Amalfi.. di questa splendida perla del mare, c’è davvero tutto questo: l’incanto della natura, Dei ed eroi, Ninfe e Sirene… e la sua origine si perde tra le cime… dell’Olimpo.
Proprio dall’Olimpo scende Ercole, il figlio del divino Zeus e della mortale Alcmena e nel suo vagabondare per l’Italia, compiuta la sua Decima Impresa, incontra la bellissima ninfa Amalfi di cui si innamora perdutamente, tanto da volerla sposare. Il Fato avverso, però, non glielo consente. La bellissima Amalfi muore improvvisamente e l’eroe, afflitto ed inconsolabile non si dà pace. Decide allora di cercare per lei e per il suo riposo eterno, il luogo più bello del creato. Lo trova lungo una costa dalla bellezza incomparabile, dove il mare e il cielo si congiungono in un orizzonte placido e sereno. Qui, in un villaggio di pescatori, adagiato in una natura rigogliosa e di incantevole bellezza, l’eroe si ferma a seppellre la povera ninfa, adornando quel posto già baciato dalla natura, con degli alberi carichi di un frutto rubato al Giardino delle Esperidi, profumato e del colore del sole; quel frutto, il limone, diventa l’orgoglio del villaggio, che l’eroebattezza con il nome dell’amata: AMALF
Nel 1490 Giovanna d’Aragona sposò Alfonso Piccolomini, erede del duca di Amalfi che la lasciò presto vedova e con due figli, Caterina e Alfonso.
Al servizio della duchessa arrivò Antonio Bologna, un maggiordomo colto ed avvenente e tra i due scoppiò immediatamente la passione. Si sposarono ed ebbero tre figli, ma il loro matrimonio fu tenuto nascosto per timore della reazione della famiglia e soprattutto dei due fratelli di lei, il cardinale Lodovico e il marchese Carlo. Una reazione violentissima, infatti, allorquando i due fratelli ne vennero a conoscenza. I due infatti fecero assassinare il povero Antonio fuggito, a Milano e rinchiusero la Duchessa, assieme alla fedele cameriera ed ai tre figlioletti, nella Torre dello Ziro, lasciandoli morire di fame o facendoli trucidare secondo un’altra versione dei fatti.
Sempre la leggenda, narra che lo spirito della infelice Regina vaghi, inquieto, tra gli spalti della torre.
Si narra che il pirata Barbarossa stesse preparando un attacco alla città con l’intento di saccheggiarla. Dalle torri di guardia, le sentinelle diedero l’allarme e alcuni cittadini corsero immediatamente sulla tomba di Sant’Andrea per implorare il suo soccorso. Ed ecco che un violentissimo vento trascinò al largo le navi dei pirati. Ma non finì qui. Un fulmine, annunciato da un tuono fragoroso, sconquassò l’aria, ed una terribile tempesta si abbattè sul mare distruggendo la flotta pirata ed uccidendo lo stesso Barbarossa.
Amalfi, si sa, era una delle più importanti Repubbliche Marinare d’Italia – Questa la sua gloriosa bandiera.
Secondo le cronache più antiche, Amalfi fu fondata da un gruppo di Romani naufragati, intorno al V secolo dopo Cristo, sulle coste pugliesi; erano in fuga dalle invasioni barbarica. Proseguendo verso nord, fondarono in territorio lucano la cittadina di Melphi e infine raggiunsero la costa campana dove si stabilirono in un villaggio che chiamarono Amalfi. Per la sua felice posizione, la maggior parte delle sue attività erano legate al commercio e tutti i suoi abitanti, compresi i nobili, vi si interessavano attivamente. I floridi commerci erano regolamenati da norme contenute in quelle che erano conosciute come le Tavole Amalfitane.
Precursori ed amanti di ogni novità, gli amalfitani furono i primi navigatori ad usare la bussola, anche se qualcuno erroneamente ritiene che ne fossero anche gli inventori. L’inventore pare sia stato , invece, un certo Giovanni Gioia, ma secondo taluni pareri, i marinai del mediterraneo la usavano già da tempo.