MITI e LEGGENDE – MITO UCRAINO… La Freccia di Fuoco

La Freccia di Fuoco   -  Mito Ucraino

Narra la leggenda che Boyatyr, un uomo forte, saggio e coraggioso, possedesse una freccia magica la quale,  tra gli altri poteri,  aveva quello di mandare l’acqua in ebollizione.  Il saggio sapeva che se la freccia fosse finita in mani sbagliate, avrebbe potuto provocare morte e distruzione.
Quando sentì prossimo per lui il momento di morire, decise di gettare la freccia di fuoco  in fondo al Mar Nero ed affidò l’impresa ai suoi figli. Questi, però disubbidirono e nascosero la freccia in montagna.
Quando il saggio ne venne a conoscenza, li costrinse a recuperla ed a  gettarla in mare come aveva comandato loro. Questa volta i figli gli ubbidirono.
Appena, però, la freccia toccò la superficie dell’acqua, questa si tinse di nero e cominciò a ribollire.
La leggenda vuole che , il fenomeno delle acque  in ebollizione, presente  in alcuni punti del Mar Nero,  sia dovuto al fatto che queste cerchino proprio di liberarsi della Freccia di Fuoco.

Maggiori informazioni http://storia-e-mito.webnode.it/products/la-freccia-di-fuoco-mito-ucraino/

EGITTO – ALCHIMIA… che cosa hanno in comune?

EGITTO - ALCHIMIA... che cosa hanno in comune?

EGITTO: é  la traduzione italiana del teemine greco Ae-gi-Pthos, che a sua volta traduce l’antico termine egizio: Hut-Ka-Ptha.

Il significato letterale è:

DIMORA (Hut) dello SPIRITO (Ka) di PTHA.

E’ la III Dinastia e PTHA è IL Dio Dinastico di MEMFI.

In precedenza il territorio era indicato con altro nome: “Il Paese delle Due Terre”.
Le Due Terre erano: – KEM  o  “Terra Nera”  e
– DESHRET  o “Terra Rossa”.
L’unificazione delle Due Terre avvenne dopo varie ed alterne vicende, militari e diplomatiche, e un “Concilio”, in cui si decise di dare quel nome a tutto il territorio, in onore di PTHA, IL DIO CREATORE.

Curiosità: la parola ALCHIMIA deriva proprio da KEM (terra nera), che i tanti sognatori cercavano di manipolare chimicamente per trasformare in oro il materiale vile.

Fin dai  tempi pre-dinastici (Dinastia “O” – Re Scorpione) gli Antichi Egizi erano famosi per la loro abilità  nella lavorazione dei metalli e per la capacità di trasformarli.
Per separare l’oro e l’argento dal minerale originario  utilizzavano “l’argento vivo” (mercurio).
Il residuo che veniva fuori  da questa operazione  era la “polvere nera”, chiamata “khem”,   una sostanza scura  che si  riteneva  avesse poteri magici e  contenesse le proprietà dei vari metalli, considerata anche “principio attivo” nel processo di lavorazione.
Gli Antichi Egizi, inoltre, in  tale sostanza riconoscevano il “Corpo di Gloria” di Osiride, il Dio Morto e Risorto e le attribuivano potere magico, fonte di vita e di energia.
Man mano che i metodi di estrazione e lavorazione del metallo andavano perfezionando,  cresceva anche l’interesse per la ricerca e lo studio relativo ai “poteri magici” di leghe e fusioni.  Ne nacque una Scienza,  che contemplava l’arte della lavorazione, ma anche le conoscenze chimiche dei metalli  e che fu chiamata “Khemeia”,  preparazione del “metallo nero”.
Gli Arabi vi aggiunsero l’articolo  “El”  e  Khemeia diventò “El-Khemeia”  da cui Alchimia.

“Khem”,  ossia “Terra Nera”,  a causa del colore del fango,  era  uno dei nomi con cui era chiamato in origine l’Egitto.

 

Il linguaggio della NATURA – I FUNGHI

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Una prelibatezza, questi meravigliosi “frutti di bosco”, conosciuti ed apprezzati fin dall’antichità.    Le prime testimonianze sulla raccolta e il consumo dei funghi risalgono alla Preistoria, quando, però, il loro impiego non era solo alimentare.  Per via delle proprietà curative, ma anche  per quelle allucinogene,  i funghi venivano utilizzati soprattutto come medicamento e come strumento nei rituali magici.

La prima testimonianza documentata del suo consumo alimentare, in realtà, risale al 2000  a.C. ed alla civiltà mesopotamica, i cui Sovrani, pare, ne fossero assai golosi, ma erano apprezzati anche in Cina, dove erano erano chiamati “Cibo degli Dei” ed in Egitto, dove avevano un posto d’onore  sulle tavole. Così anche sulla tavola dei Greci prima e dei Romani poi, presso cui questo frutto meraviglioso, era diventato “simbolo di vita”.  Pausania, scrittore greco, racconta, infatti che l’eroe  Perseo, dopo essersi dissetato con l’acqua raccolta nel cappello di un fungo, decise di fondare la potente città di Micene. A classifiicarli e descriverne per primo le caratterisiche, pare sia stato Teofrasto, un discepolo di Aristotele.

I Romani apprezzavano così tanto questo frutto, da dargli il nome di “Amanita caesarea”, un cibo, dunque,  degno di un Cesare. Avevano perfino dei “raccoglitori” espertissimi e fidatissimi;  di sicuro, i primi raccoglitori devono aver fatto delle spiacevoli esperienze prima di stabilire  quali fossero i funghi “buoni” e quali,  quelli “cattivi”.  Apprezzato dai buongustai, ed esaltato da poeti e scrittori, come Giovenale, Plutarco, Apicio o Plinio il Vecchio, nella sua opera “Naturalis Historia”, questa meraviglia della natura cominciò a coprirsi di miti e leggende.

Fu proprio in questa epoca, infatti,  che i funghi,  da simbolo di vita, presero pian piano a diventare simbolo di morte, complici anche tutte le nefaste esperienze di avvelenamento con tutte quelle specie  velenose.  Famoso, il piatto servito da Agrippina al marito, l’imperatore Claudio, a base di funghi. Funghi velenosi naturalmente .

Risalgono proprio  all’epoca,  e si sono tramandate fino ad oggi, fantastiche e improbabili interpretazioni sulla loro origine,  a causa delle loro proprietà e soprattutto  della loro tossicità: origine diabolica, si diceva, oppure divina.

Per una classificazione più scientifica bisogna aspettare  il XVI secolo e per sfatare l’alone negativo di miti e leggende creatosi intorno a questo meraviglioso e gustosissimo frutto della natura, dovranno passare altri secoli ancora.

Nel Medio Evo, nonostante il grande utilizzo della cacciagione. i funghi erano largamente consumati sulle tavole dei nobili,  ma, grazie anche alle conoscenze acquisite ed alle ricette preparate nei conventi,  il suo uso divenne sempre più popolare. Così popolare e così comune come peccato di gola e prodotto afrodisiaco, da  indurre il Santo Uffizio a proibirne il consumo, perché distoglieva il fedele dall’idea della penitenza.

Dopo il Medioevo,  ritroviamo i funghi in tutti i grandi pranzi delle corti europee, soprattutto sulla tavola di  Re Sole; sempre presente anche nelle grandi cene di rappresentanza di  madame Pompadour, come, più tardi, in quelle  galanti della  spia più famosa  al mondo,  la  danzatrice Mata Hari.

Un prodotto ricercato, dunque,  chetroviamo su tavole insospettabili, come quella  di un grande della  musica italiana, Gioacchino Rossini, il quale definì il tartufo: “Il Mozart dei funghi”;  in verità, troviamo perfino nel menu del pranzo servito a Vienna alla fine del  Congresso del 1815.

Questi fantastici frutti di bosco, si sa,  nascono spontaneamente ovunque. Ciò, però, non significa che  siano da tutti apprezzati: in America,ad esempio, i funghi coltivati sono preferiti a quelli freschi, mentre in Russia e in  Estremo Oriente,  il consumo è davvero assai ridotto; in Inghilterra, infine, i funghi freschi sono quasi ignorati, sostituiti fa quelli coltivati.  Da qui, l’abitudine di coltivarli, sia pur con molte difficoltà. Ultimamente, però, è nata l’abitudine di surgelare i funghi spontanei, benché, sapore e gusto  finiscano per  risentirne.

Tanti i perché senza risposta, riguardo questa meraviglia della natura. Ad esempio,  un ottimo e commestibile fungo spontaneo delle Alpi, può essere velenoso  se cresce sugli Urali; e ancora: uno stesso fungo può assumere forma e sapore diverso, a seconda del posto, dell’altitudine e dell’humus in cui cresce. E tanti altri interrogativi ancor.

Nello studio di questi strani organismi si è sempre occupati più delle loro proprietà terapeutiche,  che della vita e crescita. Bisognerà attendere l’800  e la nascita di una moderna ricerca scientifica  per scoprire molti dei misteri che li circondavano e giungere ad una sicura classificazione.

Purtroppo, nonostante tali progressi e l’esistenza di ottimi libri scientifici, molte sono ancora le persone che continuano  a dare credito alle antiche dicerie… dicerie risalenti addirittura ad epoca romana, con le conseguenze che possiamo immaginare.

 

 

 

 

 

IL MUSEO EGIZIO di TORINO

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I racconti dei viaggiatori, i tanti reperti che continuavano ad arrivare  nelle ricche dimore di  collezionisti e studiosi, quel fenomeno culturale conosciuto con il nome di Orientalismo e la spedizione napoleonica in Egitto, crearono un eccezionale interesse per questa cultura. Napoleone, grande estimatore di antichità, si prefiggeva lo studio e la catalogazione di tutti i monumenti distribuiti sul territorio.

Inizialmente fu solo la ricerca e la caccia all’oggetto bello, raro e prezioso, ma all’inizio del nostro secolo la ricerca divenne più consapevole:un vero studio di  quella straordinaria civiltà attraverso le testimonianze del suo passato.

Il Museo di Torino ebbe una parte importantissima in quella ricerca. Fu il primo Museo di egittologia al mondo; seguirono poi quello del Louvre, Berlino, Londra e  anche de Il Cairo.

Nacque nel 1824 , per merito di Carlo Felice di Savoia , grande studioso ed estimatore di reperti antichi , il quale acquistò una prestigiosa collezione di reperti dal console di Francia in Egitto, Bernardino Drovetti. Altri reperti, donati sempre dalla Casa Savoia arricchirono presto quella collezione , poi arrivarono  altre collezioni. Importanti quelle dell’archeologo Ernesto Schiapparelli, direttore del Museo, tra il 1900 -1920, provenienti dai materiali dei suoi stessi scavi in Egitto.

Importantissimo anche il dono, da parte  dell’Egitto al Museo di Torino, del Tempietto di Ellesiia, in riconoscimento dello straordinario lavoro di salvataggio dei monumenti, da parte della equipe italiana, dopo la costruzione della diga di Assuan che minacciavano di sommergere con le sue acque quelle meraviglie del passato.

La ricchezza e l’importanza dei tanti reperti presenti al Museo  di Torino è tale da costituire con la loro esposizione, una straordinaria lettura  della storia e degli usi e costumi di questo popolo unico e particolare.

” TESORI E SAPORI DELLA MIA SICILIA ” di Tiziana Misseri

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” TESORI E SAPORI DELLA MIA SICILIA ”
Quando a causa del lavoro viviamo in una grande metropoli, lontani dalla propria terra, la nostalgia fa capolino nei nostri cuori, ed
anche le piccole cose diventano ricordi importanti, quelli che io chiamo ricordi del cuore : il profumo, i sapori ,i colori e perfino i rumori !
Quando sono lontana dalla mia Palermo,la cosa che mi manca di piú, é passeggiare al centro storico , all’ora di pranzo tutto sembra rallentare,le voci nei cortili iniziano ad affievolirsi, e arriva la sigla del tgs ,le mamme che sollecitano i bambini a sedere a tavola, il rumore delle stoviglie,e un odore dolcissimo pervade i vicoli : la salsa di pomodoro fresco e melenzane fritte,un profumo che ti ricorda che sei a casa.
Per questa nostalgia, oggi vi propongo ” vicoli e pasta alla norma”.
La pasta alla norma, un delizioso primo piatto, pasta ( di solito maccheroni) con pomodoro fresco,melenzane fritte , ricotta salata e basilico, un tripudio di sapori.
Questo piatto ha origini catanesi, si pensa abbia preso il nome da un’esclamazione fatta da un famoso commediografo ( Nino Martoglio ), che assaggiando questo piatto disse : chista é na vera norma ! Paragonando il piatto alla famosa opera di Bellini. ☀️

L’antro della Sibilla a Marsala (antica Lilybeo) di Alberto di Girolamo

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Nel XIV secolo i Gesuiti costruirono appena fuori città, su capo Boeo, la chiesa (foto 1) dedicata a San Giovanni Battista, compatrono della città. La costruirono in quel punto per inglobare una grotta, scavata nella roccia sottostante, che i primi cristiani lilybetani avevano utilizzato come battistero.
La grotta si trova a m.4,80 sotto il pavimento della chiesa e vi si accede tramite gradini scolpiti nel tufo (foto 2). La scalinata porta in un ambiente circolare sormontato da una bassa cupola(foto 3) il cui lucernaio è radente al pavimento della chiesa. Al centro dello spazio circolare c’è una piccola vasca quadrata (foto 4) sempre piena d’acqua perché alimentata, attraverso una canaletta, da una sorgente che si trova in un vano laterale. La fonte è nascosta al visitatore da un altarino in pietra sul quale poggia una statua di alabastro di scuola gaginesca raffigurante S. Giovanni Battista (foto 4). Sul vano centrale circolare, si affaccia anche un secondo ambiente irregolare che presenta una parete absidata e una sorta di gradino (foto 5). Le pareti della grotta erano decorate con pitture, quasi tutte scomparse e il pavimento aveva dei mosaici del III secolo di cui rimangono poche tracce.
Probabilmente l’antro fu, in epoca romana, un ninfeo o “specus aestivus” per la sua frescura, successivamente utilizzato dai primi cristiani come fonte battesimale per la presenza della sorgente. Questa ipotesi è confermata dagli affreschi, appartenenti alla simbologia cristiana, che adornavano le pareti.
Questo è quello che dice la storia, poi ci sono le leggende.
Secondo la tradizione la grotta fu nel periodo precristiano dimora della Sibilla Cumana o Sicula, da qui il nome “Grotta della Sibilla”. Secondo questa leggenda la Sibilla non lasciava mai la grotta e il gradino entro l’incavo orientato a ovest costituiva il suo lettuccio (foto 5). Chi chiedeva il vaticinio alla profetessa calava nel pozzo, attraverso il lucernario, delle offerte assieme alla richiesta del responso.
Un’altra leggenda vuole che Ulisse si sia dissetato alla fonte della Sibilla e che questa gli abbia predetto il futuro.
Altre remote leggende narrano che la Sibilla fosse in realtà una sposa, caduta all’interno del pozzo e lì rimasta imprigionata.
L’antica grotta è segnalata da Diodoro Siculo (90 – 27 a.C.) e poi da Gaio Giulio Solino (III SEC.). Stranamente non ne parla Cicerone che venne a Lilybeo come questore tra il 76 e il 75.
Comunque dell’uso pagano della grotta non si ha alcuna testimonianza archeologica.
NOTA PER IL VISITATORE: la chiesa rimane sempre chiusa eccetto il 24 giugno quando si festeggia la natività di San Giovanni Battista (foto 6). Per visitarla negli altri giorni dell’anno bisogna rivolgersi alla parrocchia della Chiesa Madre.

IL LINGUAGGIO delle PIETRE – Pietre bianche o incolori

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Un mondo senza i colori dell’arcobaleno sarebbe  un mondo senza fascino  nè magia e  le pietre racchiudono in sè tutta la magia dell’arcobalemo ed ognuno di quei colori custodisce  energia e messaggi.  Il bianco è il colore della purezza, ma anche della luce e le gemme bianche o, più esattamente, incolori. esprimono trasparenza e purezza dell’animo e dello spirito.

IL DIAMANTE  – la pietra più celebrata in tutti i tempi. La pietra dalla  luminosità unica e dall’unico ed intenso fuoco. Il Diamante, la gemma dei Re. Nel 1200,  Luigi IX di Francia, emanava un decreto in cui riservava ai reali l’uso esclusivo di questa gemma ,  decreto che sarà ben presto ignorato.

Gemma dalla trasparenza e purezza inimitabile, attorno al Diamante si sono formate mille leggende.  Secondo la tradizione induista, queste meravigliose gemme si formavano  dall’impatto di un fulmine contro la roccia, mentre nell’antica Grecia  si credeva che fossero abitate da spiriti provenienti da altre dimensioni. Per  gli antichi Romani, invece, erano schegge di stelle cadute sulla Terra e sempre nell’Antica Roma, i Diamanti altro non erano che  lacrime divine.

Noto anche  il “giudizio del diamante”,  nella tradizione ebraica, secondo il quale, alla presenza di un colpevole, la gemma  si sarebbe oscurata e invece avrebbe aumentato di lucentezza,  alla presenza di un innocente.

Pietra durissima e cristallina, il Diamante diventa schermo  protettivo per eccellenza:  chi porta su di sè questa pietra, riesce con facilità a controllare le emozioni, ma anche a  placare l’irrequietezza degli animali, anche  delle belve più feroci. Per questo  è considerata anche la gemma del coraggio,  della forza e dell’invincibilità. Ottimi talismani, dunque, contro pericoli ed avversità, dai fulmini alle disgrazie.

 

 

ZAFFIRO  BIANCO  –   Lo zaffiro, è risaputo,  è un  eccezionale stimolatore della mente: favorisce l’intuizione, apporta chiarezza  e, di conseguenza,  contribuisce  alla serenità ed all’equilibrio della persona. Utilissimo, dunque per   aumentare l’autodisciplina ,  accrescere l’applicazione  e stimolare l’ingegno. Ottimo anche per  mantenere  il  buon senso non solo nello svolgimento della proprie attività, ma in ogni frangente.

Simbolo di sincerità e fedeltà, questa splendida pietra abbagliante  è  considerata  un pegno d’amore e di fedeltà   nello cambio di anelli fra fidanzati , spesso  al posto del diamante,  ma  risulta molto efficace anche nella risoluzione positiva di questioni legali.

 

 

TOPAZIO  BIANCO  –  secondo la tradizione, il nome del Topazio deriva dal sanscrito  topas che significa fuoco   ed   è considerato il simbolo  per eccellenza della  forza energetica solare e maschile. Pietra maschile, dunque, anche il topazio bianco, che  dona l’energia necessaria  per  condurre l’ esistenza secondo le proprie aspirazioni.

Raccomandata contro lo stress, é ottima anche contro la depressione, ma efficace soprattutto  nelle pratiche meditative, essendo considerata la pietra  la pace r della serenità. Al contempo, però, il Topazio,  soprattutto  quello bianco, risveglia il guerriero  che è in noi, donandoci la forza per sostenere i nostri ideali…anche quelli di pace.

Particolare virtù  si attribuisce a questa splendida pietra: elevare i sani principi e cioè, la capacità di frenare lussuria, assecondare la castità, alleggerire la  frenesia.

 

PIETRA  DI  LUNA  – é, forse, la pietra attorno   alla quale  si sono raccolte più leggende in tutti i tempi ed a tutte le latitudini. Nell’antichità si credeva che la Pietradi Luna fosse composta di  piccoli frammenti provenienti dalla Luna stessa e che, a causa della sua lucentezza,  che brillasse della luce di una divinità chiusa al suo interno, lucentezza che cambiava  swcondo le fasi lunari..  Nell’Antica Roma era il simbolo della dea Diana.

Se  il Topazio è considerato una pietra  maschile, la Pietra di Luna  é da sempre gemma squisitamente femminile  e, in quanto tale,  con qualità divinatorie. Tradizionalmente, infatti,  la divinazione é sempre stata ritenuta un’arte femminile.

Molte le  virtù di questa gemma, oltre all’arte divinaoria. Una soprattutto: il suo influsso sui sentimenti,  quali l’amore, l’affetto, l’amicizia.

 

 

I FIORI e il loro linguaggio… il Ciclamino

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E’ un fiore tra i più generosi e facili da coltivare e, al contempo, bellissimo e velenoso. Ambiguo, dunque. Pericoloso per il veleno contenuto nel suo  tubero, ma utile, quello stesso veleno,  come antidoto contro i morsi di serpenti. Regalarlo, però è un omaggio alla sincerità… Il suo messaggio è proprio questo:  invito alla sincerità ed alla  schiettezza.

Per questo, forse, la sua origine  si perde nella leggenda . Che cosa raccontano le leggende?  La leggenda racconta del misterioso giardino di Ecate, di cui il ciclamino era la pianta regina.

Ecate, dea della Magia, degli Incantesimi e degli Spettri, in grado di attraversare il mondo dei vivi e  quello dei morti; a lei si ispirava la Sibilla Cumana per i suoi responsi.

Ecate, che presiedeva ai  sortilegi ed incantesimi d’amore , invocata con  canti e preghiere accompagnati da filtri e pozioni magiche.

Ecate, che, associata ai cicli lunari,  insieme a Diana ( luna crescente), ed a Selene ( luna piena), simboleggiante la luna calante, era Dea della Magia  della Stregoneria.
Ecate,  nel  cui misterioso giardino notturno, le sue sacerdotesse, le maghe Circe e Medea, custodivano il suo fiore preferito: il ciclamino,  talismano contro malefici e  potente simbolo di vitalità econcepimento.

GLI ARABI E I NORMANNI A PALERMO- di ELISA MORO

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In seguito alla conquista da parte degli Arabi, avvenuta nel 831 d.C., dopo un lungo assedio, la città di Palermo in 243 anni di dominazione, raggiunse splendore e prosperità; fu sede degli Emiri e divenne simile alle maggiori città arabe. La città raggiunse proporzioni notevoli attraverso nuove espansioni che garantirono integrità all’antico tessuto urbanistico del Cassaro. L’antica Paleopoli che dal XI sec. verrà denominata Galca, cioè “la cinta” dall’arabo al-halquah, diverrà la sede del primo nucleo di quel complesso che poi sarà il Palazzo dei Nomanni. Prima tra le espansioni urbane della città in periodo Arabo fu la cosiddetta “Halisah”, cioè la Kalsa, una vera e propria cittadella fortificata che venne costruita nel 937 nell’area in prossimità della attuale Cala. Era munita di porte e serviva a fronteggiare gli eventuali attacchi dal mare.

Si tratta della prima espansione che abbia seguito un programma stabilito e che sia stata utile ad accogliere gli edifici della classe dominante dei fatimiti. Successivamente la città conobbe altre espansioni fuori le mura e, a nord e a sud, si costruirono nuovi quartieri… Uno di questi a Nord del Cassaro era chiamato “harat as Saqalibah”, meglio noto come il “quartiere degli schiavoni”, il quartiere più popolato della città. Mentre il Cassaro e la Kalsa erano destinati infatti a residenza dell’apparato dirigente e amministrativo oltre che militare, “harat as Saqalibah” era destinato ai commercianti e pertanto tendeva ad accogliere tutti coloro i quali giungevano per motivi commerciali.

Era un quartiere multietnico che risentiva dei contatti via mare. Il testo “Sicilia musulmana” di I. Peri (1961 -Edistampa), riporta: “Palermo divenne il centro preferito della immigrazione musulmana, richiamando non solo militari ma anche mercanti. Non mancarono gli isdraeliti; persiani, siriani, arabi, africani vi convennero in nutriti gruppi richiamati dal clima e soprattutto dal ruolo assunto dalla città, di emporio del commercio più redditizio fra l’oriente e l’Africa da una parte e i paesi dell”occidente cristiano dall’altra”.
Al mercante arabo Ibn Hawqal dobbiamo la descrizione di alcuni antichi mercati dell’antica città. In tal senso è interessante rilevare ancora oggi la insistenza negli stessi luoghi di alcuni mercati tradizionali della città come Ballarò, la Vucciria e Lattarini. Del resto, per fare un esempio, l’origine del termine “Lattarini” deriva da “‘attarin” che vuol dire gli “speziali”. Dalla via Calderai alla via Divisi, invece si estendeva il quartiere della moschea, testimoniato dalla presenza di un vicolo che ancora oggi riporta il nome meschita.

La mancanza di permanenze architettoniche relative alla presenza degli Arabi a Palermo è ancora oggi poco indagata. Le testimonianze di carattere religioso sono del tutto irrilevanti e analogamente può dirsi di quelli a carattere militare, tanto che si può affermare che gli unici resti di architettura islamica in Sicilia sono i bagni di Cefalà Diana, fuori Palermo. Eppure Palermo è decantata dai numerosi viaggiatori come una città ricca di moschee (si dice fossero ben trecento) e di bellissimi palazzi. Ibn Gubayr, viaggiatore andaluso in Sicilia tra il 1184 e il 1185, descriveva Palermo come una città ricca di meravigliosi palazzi, giardini e parchi che circondavano la città come “i monili cingono i colli delle belle dai seni ricolmi”. Descrive anche il “qasr Ga’far” come un castello nei pressi della città sede dell’Emiro Ga’far. Oggi noto come il Castello di Maredolce è stato recentemente restaurato. Possedeva un’ampia peschiera con un’isola al centro; tale lago era alimentato dalle acque provenienti dalla sorgente del maredolce. Ancora oggi sono visibili alcuni tratti degli argini del laghetto intonacati di rosso.

Recentemente i “giardini islamici” di Palermo sono stati portati all’attenzione dell’Unesco, dopo un seminario che ha riunito parecchi studiosi di giardini islamici. Questi giardini infatti riprendevano i modelli persiani e, essendo posti intorno alla città in posizione dominante, erano circondati da muri ed erano ripartiti in modo geometrico. Canalette d’acqua, circondate da aiuole fiorite, agli incroci recavano fontane e confluivano in bacini più ampi, i cosiddetti laghetti, che spesso avevano un’isola artificiale al centro. Intorno, spazi aperti erano appositamente dedicati all’esercizio della caccia e alla sperimentazione di tipo agronomico. Con la dominazione Araba giunsero infatti in Sicilia molte specie vegetali, tra cui i noti limoni e gli aranci. I giardini ne erano ricchi, come del resto erano ricchi di fiori profumati, come i gelsomini, e di palme. Possiamo immaginare i profumi che si spigionavano da questi campi, dove era uso degli islamici recarsi a disquisire di argomenti scientifici.

Anche l’edilizia minore della Palermo araba aveva dei lati caratteristici contrassegnati da una costante presenza di giardini che si frapponevano tra le varie unità edilizie.

Altre strutture inoltre arricchivano la città araba, come ad esempio i bagni. Con gi Arabi Palermo assunse la forma rettangolare che conosciamo e, per l’ipotesi di popolazione in circa 300.000 abitanti, venne messa al II posto dopo Costantinopoli. Nel periodo Arabo furono inoltre portate avanti delle tecniche agricole avanzate per un migliore sfruttamento del suolo e per la canalizzazione delle acque. Il commercio e l’evoluzione del mondo agricolo contribuiranno allo sviluppo della città che si confermerà una struttura di tipo multipolare in relazione con il paesaggio circostante.

Il I Gennaio del 1072, con un esercito al seguito, Roberto il Guiscardo e il Conte Ruggero entrarono a Palermo attraverso la porta della città, che si trovava nella zona della Kalsa, segnando la fine della dominazione Araba e l’inizio di quella Normanna.
Tale evento rimase impresso nella memoria della gente, così tanto, da ispirare l’arte popolare. L’argomento fu infatti narrato nei dipinti di molti carretti siciliani, e ispiratore delle storie narrate nell’opera dei pupi.
Al figlio del Conte Ruggero, Ruggero II, che venne incoronato re di Sicilia nel 1130 nella Cattedrale di Palermo, dobbiamo i maggiori monumenti di epoca normanna a Palermo; molte moschee, in questo periodo, vennero distrutte per far posto a chiese cattoliche la cui architettura risentiva fortemente delle precedenti costruzioni islamiche.

La Chiesa di St. Maria dell’Ammiraglio detta “la Martorana” rappresenta una delle chiese più belle ed emblematiche della Sicilia per l’armonia raggiunta dall’insieme dei diversi stili che nei secoli in essa si sono stratificati.

All’interno della Chiesa in una decorazione musiva è raffigurato in atto d’adorazione ai piedi della Vergine, Giorgio d’Antiochia, Ammiraglio di re Ruggero che fondò la chiesa nel 1143. La chiesa prese il nome di St. Maria dell’Ammiraglio in onore di Maria e del suo fondatore, ma tale nome mutò nel 1435, allorquando la chiesa fu ceduta alle monache del monastero benedettino fondato dalla moglie di Goffredo Martorana.
L’interno è a croce latina, le splendide decorazioni musive interessano le pareti, le absidi, il presbiterio, il tamburo e la cupola e si accostano meravigliosamente agli affreschi settecenteschi realizzati dal Borremans.
Il campanile e il nartece sono databili tra il 1146 ed il 1185. Al 1588 risale la demolizione della facciata originale che venne sostituita dalla facciata barocca che oggi ammiriamo. Accanto alla Martorana si trova la Cappella di San Cataldo di schietto gusto islamico, sormontata da tre cupole rosse. Nel 1844 la cappella fu restaurata secondo il progetto dell’architetto Patricolo che restituì a San Cataldo il suo aspetto originario.

La Cattedrale di Palermo, è stata l’ultima grande costruzione normanna della sicilia e fu edificata durante Guglielmo II nel 1166-1189 in luogo di una chiesa paleocristiana distrutta all’epoca delle invasioni vandaliche. Costituisce un esempio di come si siano sovrapposte e sintetizzate in un’unica opera architettonica molti linguaggi architettonici appartenenti a diverse epoche, dall’arabo-normanno al neoclassico. Accoglie le spoglie dei reali normanni e svevi: Ruggero II, la moglie Costanza e Enrico IV, oltre a FedericoII e Costanza d’Aragona. Nella cattedrale, si racchiude parte della storia stessa della città di Palermo. Vi furono incoronati Carlo III di Borbone e V.Amedeo di Savoia.

Uno dei simboli architettonici della città è la chiesa di San Giovanni degli Eremiti, edificata in epoca normanna e caratterizzata dalle note cupole rosse dall’aspetto arabo. La presenza dei Nomanni caratterizzò non poco l’immagine della città: atre testimonianze d’epoca normanna sono la Cuba e la Zisa.

La Cuba, di poco posteriore alla Zisa, fu eretta nel 1180 e destinata a residenza estiva della corte normanna. Faceva parte del parco di delizie dei re normanni e si specchiava in una enorme peschiera. L’imponente massa architettonica, coronata da un’iscrizione a caratteri cufici, consta di quattro geometrici avancorpi ed il rigore perfetto delle pareti è movimentato da un’ampia sagomatura di archi ciechi ogivali. All’interno, la copertura della sala centrale, che si elevava per tutta l’altezza dell’edificio, era decorata “a stalattiti”. Dopo 135 anni la Cuba è stata recentemente aperta al pubblico; la Soprintendenza di Palermo ha infatti ottenuta la cessione definitiva dell’area pertinente al laghetto che circondava l’edificio e che era stata occupata da alcune costruzioni, che avevano inglobata la costruzione araba per numerosi anni impedendone la visione al pubblico…. Durante la visita alla Cuba è possibile ammirare un plastico che mostra come doveva essere l’aspetto del maestoso edificio quando era circondato dalla peschiera, di cui oggi rimangono soltanto le tracce.

La Zisa, dall’arabo “Aziz”, la splendida, era una reggia circondata da giardini di delizie e da una grande Peschiera, che fungeva da specchio al meraviglioso palazzo. Recenti opere di restauro hanno restituito parte dell’antico splendore all’edificio … E’ così oggi possibile visitare l’interno dell’edificio dove è stato realizzato un museo dell’arte islamica in Sicilia; L’imponente massa muraria è ingentilita dalla presenza di monofore ricavate nei caratteristici archi ciechi ogivali.
All’interno la sala principale, dal vestibolo a pianta cruciforme, è ornata da esedre parietali e soffitti alveolati, qui originariamente, da una fontana fino al 1500 sgorgavano acque che attraversando l’ingresso raggiungevano poi un vivaio.

La cubula è invece un piccolo padiglione aperto nei 4 lati da arcate ogivali, ed è sormontato da una cupola rossa. Realizzata per far parte del noto Parco del Genoardo realizzato sotto GuglielmoII, è stata restaurata nel 2004 insieme al recupero dell’agrumeto circostante.

Tali monumenti rappresentano l’aspetto forse più diffuso della città di Palermo che viene così percepita come una città sospesa tra oriente e occidente, per la presenza di quelle componenti introdotte dalle maestranze arabe nelle architetture denominate arabo-normanne, e anche per il permanere di alcuni usi e costumi di carattere tipicamente arabo ancora talvolta perpetuati da parte della popolazione.

“Meridiani & Paralleli – Polo Sud” di Ilaria Messina e Romina Gotti

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Quanti uomini, quanti sogni infranti nell’estremo tentativo di raggiungere la meta, quanti corpi mai ritrovati! Tombe di ghiaccio, di acqua e distese solitarie. Quali pensieri prendono forma nella mente di chi è consapevole che il viaggio è arrivato al termine, che non c’è più scampo, che non si tornerà al caldo tepore della propria dimora, che ormai il destino è segnato? Gesta eroiche di coloro che hanno affrontato l’ignoto per aiutare i compagni, per concedere più possibilità di riuscita dell’impresa, sacrificando la propria vita; il loro nome é ricordato nel tempo e nelle viscere della terra che lo ha accolto.
L’avventura ci ha condotto al sud, molto al sud al polo, terra di nessuno, continente bianco, pianeta alieno, senza presenza umana. Incontaminato e sconosciuto.
Temperature estreme non compatibili con la vita umana; quella terra sulle carte geografiche così lontana, avvistata da curiosi marinai che le correnti hanno spinto molto a sud. Andava scoperta, calpestata ed esplorata, a volte anche sorvolata da occhi e piedi umani.
Sopravvivere prima di tutto….

Antartide. Terra estrema. In ogni senso: estrema perché all’estremità meridionale del globo, estrema per la durezza della condizione ambientale e climatica, tale da renderla la zona più fredda della terra.
Il quinto continente, quello più a sud del mondo, deve il suo nome proprio a questa peculiarità: a fine ‘800 il cartografo scozzese J.G. Bartholomew lo battezzò “Antarctica”; sin dai tempi di Tolomeo, se ne ipotizzava l’esistenza.
Antartide, terra glaciale per antonomasia: ha un’altitudine media superiore a quella dell’Artide, costituita quasi interamente da una coltre di ghiaccio spessa anche 1600 mt, raccoglie il 90% delle masse ghiacciate del pianeta e il 70% della riserva d’acqua dolce totale, la sua temperatura invernale può raggiungere i 90 gradi sottozero.
Una terra inospitale, arida, disabitata, eccetto che per i tecnici, gli scienziati e gli esploratori delle stazioni di ricerca… e ovviamente i pinguini. Non dimentichiamoci dei pinguini!
Una terra allo stesso tempo magica, con un cielo da fantascienza, dotato di due o tre soli come un pianeta di un’altra galassia. E’ l’effetto del “sole fantasma”, di cui sono responsabili i cristalli di ghiaccio sospesi nell’atmosfera che, riflettendo la luce, formano dei cloni dell’astro solare. E il pulviscolo ghiacciato crea anche un altro spettacolo naturale: bachi di nebbia chiamati “polvere di diamanti”. Ultimo ma forse ancora più eclatante la famosa “aurora australe”, artefici, stavolta, i venti solari che emanano bagliori verdi e azzurri.
E’ questa la magia che ha ammaliato i primi esploratori, spingendoli a voler calpestare questa immensa distesa di ghiaccio, nonostante le difficoltà e le condizioni inospitali, solo per poter dire “noi siamo stati qui”?! Probabilmente è ciò che ha spinto il giovane norvegese Roald Amudsen, a lasciare gli studi di medicina per seguire il richiamo del mare e la sua vocazione all’avventura… All’inizio però fu sfortunato: nel 1897, aggregandosi alla prima spedizione in Antartide condotta da De Gerlache, la cui nave rimase bloccata per un anno nel mare ghiacciato, in balia del vento e dello scorbuto …imparò almeno l’arte della sopravvivenza…nel 1905 guidò la prima traversata via mare del passaggio a nordovest, dalla Baia di Baffin allo Stretto di Bering. La sfortuna si accanisce ancora sul nostro esploratore: nella corsa al Polo Nord non è solo, anzi già due concorrenti stanno gareggiando per raggiungere il traguardo con un netto vantaggio su di lui: Cook e Peary… La delusione è cocente ed egli inizia per la prima volta a considerare il Polo Sud come meta alternativa… ma anche qui sorge un ulteriore problema: annullando la spedizione al Polo Nord, rischierebbe di perdere i finanziamenti statali, anche perché già l’Inghilterra sta organizzando una missione in Antartide guidata da Robert Scott e sarebbe un affronto a livello diplomatico sfidare gli inglesi.
Nel 1910 salpa con la nave Fram, e proprio tra i flutti dell’Oceano Atlantico avvisa l’equipaggio di un brusco cambio di programma o meglio di direzione: il timone va puntato verso sud, alla faccia degli inglesi!
In fondo in amore e in guerra tutto è concesso.

Robert Falcon Scott nacque nel 1868, la sua competizione con Roald Amundsen per la conquista del Polo Sud lo ha condotto alla morte e al ricordo eterno. Nel 1901 salpa con il Discovery per il polo sud, giunge nel mare di Ross, l’inverno è vicino, il tempo peggiora si rischia di rimanere imprigionati dal ghiaccio che abbraccia lo scafo e tutto scricchiola. Fitte nubi si addensano , i venti si sono alzati, nessuno è al sicuro durante una tempesta. Trascorre l’inverno a bordo della nave al largo ,lontano dai ghiacciai pericolosi, in compagnia di Wilson e Shackleton. Slitte e poni per la loro prima esplorazione e passeggiata nell’isola di Ross, all’orizzonte il monte Terror.
Nel 1910 la 2a spedizione,fatale per tutti e cinque i componenti. Terranova Bisogna battere Amundsen nella corsa alla conquista. Lotta contro il tempo. Molto esperto, il norvegese, lo vedremo conquistatore del Polo Nord; troppo impreparato, Scott, che decide di non affidarsi ai cani da slitta. Perché?
Errore fatale! Egli cerca di portare a termine l’impresa con cani inadatti alla temperatura. Sbaglia periodo dell’anno, sta arrivando l’inverno In cinque; forse troppi: più si è, più risorse si consumano.
Le condizioni atmosferiche e le tempeste lo fermano, ritardano la marcia, sfiancano i partecipanti e anche l’anima. Quando raggiungono la meta , quel punto sulla carta, vi trovano il nero vessillo lasciato sulla slitta dall’esploratore norvegese.
Che fare? Quali pensieri , quale sofferenza fisica e morale devono aver provato! Non resta che tornare sui propri passi. Pensate sia facile? E adesso che arriva il disastro. I viveri si sono esauriti.
Amundsen impiegò un tempo relativamente breve per rientrare alla base provvisoria, Scott si imbatte in tempeste, gli animali saranno morti, i cinque diventano quattro, si arrendono in una tenda a poche miglia dalla costruzione che conservava viveri, predisposta da Scott nella prima spedizione, ma questo loro non lo sapevano. Dei quattro ne rimangono tre: sacrificio estremo per permettere la sopravvivenza degli altri. Inutile! La lucidità deve essere venuta meno: avrà retto la tenda alla forza di quei venti che sembrava volerla strappare?
Il loro rifugio si trasforma nella loro tomba, i loro corpi verranno ritrovati anni dopo. La sconfitta dell’uomo sulla natura, l’impossibilità dovuta ad errori umani e alle condizioni atmosferiche.

la competizione….ilnostro Amundsen non insegue l’avversario Scott già sulle orme di Shackleton, un altro esploratore che aveva in passato tentato l’impresa senza successo, ma decide di seguire una rotta diversa.
Per questo giunge alla Baia delle balene lungo la barriera di Ross e qui pianta il campo base. Il percorso è più lungo e sconosciuto rispetto a quello intrapreso da Scott, ma dalla sua Amundsen ha l’intuizione di scegliere i giusti mezzi: slitte trainate da cani rispetto ai poni e alle slitte a motore dell’avversario.
Proprio questo si rivelerà determinante per la riuscita dell’impresa. Dopo un primo tentativo fallito, con metà della squadra a rischio congelamento colpiti da una tempesta di neve, il nostro eroe si prende la rivincita sulla sfortuna il 19 ottobre 1911 , Parte con 5 uomini , slitte e 52 cani
In un mese attraversa la baia di Ross e arriva al Plateau, qui pianta la tenda per riprendere le energie. Fuori un bianco accecante, tempesta e neve, all’interno niente viveri, uomini e cani affamati, che fare?
C’è solo un modo , la decisione unanime. 24 cani vengono uccisi per permettere a uomini e cani superstiti di sopravvivere. La tempesta cessa, il 14 dicembre 1911 il gruppo arriva al polo sud, 35 giorni in anticipo su Scott.
Lascia una slitta, una bandiera ed una lettera dove rivendica l’impresa.
3000 km, 16 cani, dolore e fatica, 5 uomini: la soddisfazione di essere primo, di aver calpestato la terra che molti hanno sognato, altri tracciato le insenature, ma irraggiungibile tranne che per il norvegese.

Un destino in comune Scott trovò la morte nel bianco del polo sud, Amundsen cercando di aiutare l’amico Nobile spari nelle nevi del polo nord con il suo aereo, riposano entrambi nei ghiacci, scopo unico di una vita, forse quello che hanno sempre voluto, perdersi per sempre in questo infinito.
….28 marzo 1912
I viveri sono finiti da giorni, la tempesta non si placa, la situazione sta peggiorando, non è possibile che qualcuno giunga in pieno inverno af aiutarci e noi ormai mezzo congelati non possiamo lasciare il rifugio, siamo rimasti in tre, lascio il mio diario ai posteri.
“Fossimo sopravvissuti avrei avuto una storia da raccontare….”
Dal diario ritrovato di Robert F. Scott

Fonti enciclopediche
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