“IL MIO LIBANO” di Simonetta Angelo-Comneno

II – Il mio Libano

 

 

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Rivado con la mente alle gite che si facevano negli anni sessanta e settanta. Si lasciava Beirut e costeggiando il mare a sinistra ci si dirigeva verso il Nord. A destra gli aranceti ci accompagnavano fino a Jounieh, un piccolo e adorabile villaggio di pescatori con case in arenaria gialla e tetti rossi, posto al centro di una splendida e verde baia. Al di là della baia, a ridosso di una brulla e rocciosa collina, sorgeva il Casino du Liban, vasta e moderna costruzione con molte sale da gioco e una sala per gli spettacoli. Quando la guerra civile è scoppiata nel 1975, molti libanesi hanno cercato rifugio proprio a Jounieh, accontentandosi all’inizio di trovare rifugio nei Conventi, ospitalità di cui anche io ho approfittato, e poi chez l’habitant, accontentandosi cioè di stanze presso gli abitanti del luogo. A poco a poco sono sorte nuove costruzioni per ospitare tutti quelli che cercavano un angolo tranquillo e durante quei lunghi quindici anni di guerra a un po’ per volta sono spariti gli aranceti, poi le ville con i giardini, infine le vecchie e belle case libanesi per fare posto a palazzi e negozi vari. Ormai quei venticinque chilometri che separavano Beirut da Jounieh non formano che una immensa città che non solo ha riempito la stretta costa ma che si è anche arrampicata sui pendii delle montagne lasciando uno sparuto ciuffetto di verde proprio lassù in cima.
Ogni anno vado a passare due mesi in Libano, in genere in inverno, ed ogni anno trovo qualcosa di nuovo: nuove costruzioni ( e sono quelle che io chiamo “costruzioni selvagge” perché chiunque possegga o compri un lotto di terreno edificabile vi costruisce un palazzo, lussuoso naturalmente, di quindici, venti piani. In genere c’è un solo appartamento per piano, di dimensioni quasi modeste che vanno dai 250 ai 700 metri quadrati) e nuovi megalattici centri commerciali. Anche il Libano da molti anni patisce per una crisi economica intermittente, causata dall’alternarsi di tranquillità e di violenti scontri armati tra le varie fazioni, che mette in ginocchio il commercio; ciò non impedisce però a chi detiene la ricchezza, e non sono molti, di costruire e costruire ancora a beneficio di loro stessi.
Mi sembra di non riuscire più a ritrovare quelli che erano i miei punti di riferimento, a chiedermi dove sia andata a finire quella via che ho percorso centinaia di volte, dove si trovi la piazza che era il cuore della città …Chiedo al tassista, un giovanottello di una ventina d’anni o poco più, nato sicuramente dopo la fine della guerra, di accompagnarmi al Bouj. “E che cos’è il Burj?” mi risponde. “Il Burj ovvero Place des Canons ovvero Place des Martyres”, ne ha avuti di nomi questa piazza che era il cuore della vita di Beirut, cerco di spiegarglielo. “Non la conosco”, risponde.
Annaspo, cerco di spiegarmi meglio citando luoghi vicini : “Alla fine di Rue de Damas, vicino al Centro Lazarié..”, “Ah, ho capito, lei vuol dire l’Esplanade…” e mi porta in una enorme spianata circondata da palazzi e intersecata da strade. Scendo lì, perché voglio cercarmeli da me i luoghi che conoscevo e che forse sono spariti per sempre.
Benchè Beirut fosse una città prevalentemente moderna, il suo centro conservava un cachet orientale. Là si trovavano i vari souk, quelli alimentari delle verdure, della carne, del pesce, dei cereali e delle spezie , e quelli più attinenti la vita sociale come il souk dei gioiellieri, il souk Nouriyé dei vetri, il souk Soursock delle stoffe…Immaginate una grande piazza rettangolare e mettetevi con le spalle a sud, sul lato corto; davanti a voi, a nord, c’è il palazzo Rivoli con il suo cinema-teatro a pianterreno e sopra i piani adibiti ad uffici. Al di là del Rivoli si scorge il mare. Tra voi e il Rivoli , al centro della piazza, vi è un giardino nel centro del quale sorge il monumento ai Martiri Libanesi ( uno dei nomi della piazza, Places des Martyres, ricorda quei libanesi fucilati dagli ottomani durante il loro dominio in Medio Oriente. Precedentemente in questa piazza vi sorgeva una torre, bourj, con orologio che aveva dato alla piazza il nome Sahat al-Bourj, piazza della Torre, nome che nel 1860 cambiò in Place des Canons quando i Francesi vi istallarono dei cannoni là dove un tempo, cioè nel 1773, i Russi avevano piazzato i loro.) Si potrebbe pensare che i vari nomi di questa piazza potessero generare una grande confusione; in realtà ciò non ha mai disturbato i beirutini che la nominavano indifferentemente in un modo o nell’altro. Certo non ci si può aspettare che la nuova generazione, che non l’ha mai conosciuta, possa identificarla in un qualche modo. Torniamo alla piazza. Alla nostra destra si trovava la Rue Gouraud con le sue case tradizionali a due piani; al di là dell’imboccatura della via c’era una fila di palazzi di due o tre piani con negozi sulla strada, poi veniva una strada stretta da tutti conosciuta come la via delle prostitute, proprio perché vi si trovavano parecchi bordelli, palazzine basse con le imposte verdi e insegne che declamavano le doti delle varie Marika, Blanche, Halima e Fatima. Ricordo che quando noi donne passavamo lì davanti dovevamo tenere pudicamente gli occhi a terra o fissi davanti a noi per non mostrare curiosità o conoscenza di quel mondo. In verità io ho sicuramente dovuto sbirciare più di una volta altrimenti non ricorderei quelle insegne. Poi c’era la sede della Polizia Municipale, poi un altro palazzo e infine la Rue el Arz che portava al porto di Beirut. Dall’altro lato della piazza, a sinistra, si apriva la Rue Emir Bechir. Il Hawet-el-Zeiss, cioè il caffè a vetri, faceva angolo tra la rue Emir Bechir e la piazza. Quel locale era uno dei tanti locali per soli uomini sparsi nella città; tre di questi erano i più conosciuti, il primo si trovava appunto nella piazza dei martiri, il secondo sulla Rue Gemmayzè, lì vicino, e il terzo sul lungomare, non lontano dal quartiere Zeitounè dove si trovavano i più belli e famosi cabaret libanesi. Si chiamava caffè a vetri proprio perché aveva delle grandi vetrate su tutti i lati attraverso le quali gli uomini che vi si recavano per passare il tempo a bere caffè, fumare il narghilè o giocare a tric-trac, potevano osservare la vita che si svolgeva al di fuori. Dopo Hawet-el-Zeiss, su strada si trovava tutta una serie di locali commerciali: una sartoria dove si potevano far fare su misura i famosi cherwal, tipici pantaloni dei montanari libanesi, poi il fabbricante di fez, il negozio di dolci orientali, il souk dei gioiellieri e di nuovo negozi di dolci, infine si arrivava alla bella ed elegante Rue Weygand con il suo splendido palazzo del Municipio e laggiù in fondo Bab Edriss con il souk Franjé e il mercato dei fiori.
Mi ritrovo sperduta davanti a questa spianata; ho sognato ad occhi aperti un luogo che non esiste più. Perdono adesso l’ignoranza del mio tassista, come poteva sapere dove fosse una piazza che vive solo nel ricordo di chi ha ben più dei suoi vent’anni? Davanti a me, dove prima c’era il Rivoli l’asfalto della strada costiera ha coperto una parte del mare che ora non è più ostruito dalle costruzioni. Ma il resto dov’è finito? Fatico a capire che là, a sinistra, dove prima c’era l’Hawet-el-Zeiss, ora sorge la maestosa moschea dalla cupola blu voluta dal ministro Rafik Hariri, il primo ministro sunnita assassinato il 14 febbraio 2005 insieme a 21 altre persone da un’autobomba che oltre alle vittime ha distrutto in parte il famoso vecchio Hotel Saint-Georges che era stato appena ristrutturato dopo i gravi danni subiti durante la guerra civile. Spariti i negozi di dolci orientali, spariti i souk. Al loro posto un bel palazzo di quattro piani in stile orientale mai visto prima; forse è opera di un’accurata ristrutturazione di una fatiscente costruzione del XIX secolo che le numerose insegne occultava ai nostri occhi. Il palazzo rossastro del VIRGIN riempie lo spazio fino alla Rue Weygand; grazie a Dio quella esiste ancora. E a destra? A una larghezza doppia, forse tripla, di quella della vecchia piazza, vedo una serie di bei palazzi rosso mattone, giallo ocra, rosa antico dalla facciata orientaleggiante e i balconi in legno traforato. Ma dove erano prima quei palazzi mai notati ? nascosti da quelli che la guerra ha distrutto? Non lo so ma mi sembra di essere su un set cinematografico dove ci si appresta a girare un film di spionaggio in Medio Oriente, E la stessa impressione la ritrovo alla Rue Marad, una bella e larga via lunga forse due, trecento metri, sotto i cui portici c’erano negozi di scarpe, di abbigliamento, di granaglie e di spezie. Oggi per un istante mi è sembrato di percorrere la Rue de Rivoli a Parigi. Tutto sembra nuovo e tirato a lucido, eppure si tratta dei palazzi che esistevano anche prima, no anzi vi è stato aggiunto un secondo piano ma lo stile è quello anche se un po’ più pieno di stucchi e volute.
Per i turisti che ci vengono per la prima volta, Beirut apparirà come una bella città moderna con un tocco di orientale, dove è possibile sciare sulle alture di Faraya o più a Nord, ai Cedri di Becharré, e magari poi scendere sulla costa per andare a nuotare in uno dei numerosi stabilimenti balneari sparsi sulla costa. Una città dove si può passeggiare sul lungomare per ammirare le centinaia e centinaia di lussuosissimi yacht ancorati, sedersi in uno degli innumerevoli café-trottoir a sorseggiare un aperitivo prima di cena, e magari andare in uno dei numerosi night club per assistere a una danza del ventre o ballare al suono di un’orchestra con un cantante magari italiano o spagnolo.
Eppure Beirut non è solo divertimento.

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“IL  LIBANO  –  TERRA DEI FENICI…    LA  PORPORA  “di  MARIA  PACE

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Terra dei Fenici! E subito nell’immaginario collettivo appaiono svelte navi nere dall’immensa vela quadrata. Un altro colore, però, stregò questo popolo: il rosso-porpora.
Fenicia! Terra della Porpora.
Ma come nacque questa meraviglia che stregò anche i popoli di tutto il mondo? Sono numerose le leggende sorte intorno all’origine di questa scoperta.
Una romantica leggenda racconta di Melkart, Dio e fondatore della città di Tiro e corteggiatore sfortunato di una bella ninfa di nome Tiro. Durante una passeggiata lungo la spiaggia, la bella fanciulla rimase affascinata dal colore che un piccolo mollusco sprigionava dal proprio guscio. Al divino innamorato promise le sue grazie, se egli le avesse fatto dono di una veste di quel colore. Inutile dire che Merlkart la accontentò subito.
Meno romantica è un’altra leggenda, raccontata 500 anni dopo Cristo dallo storico Flavio Magno Cassiodoro.

Ma come si arrivava al pigment Cassiodoro,o per tingere le stoffe? Le modalità di lavorazione erano le seguenti. Dopo avere pescato i molluschi, forse con nasse, questi venivano messi in ampie vasche; infrante le conchiglie che ricoprivano i molluschi, essi subivano in processo di macerazione, durante il quale si otteneva il pigmento. A questo punto si diluiva il colore con acqua di mare, a seconda dell’intensità della gradazione desiderata, dal rosso cupo al violetto

Un’altra storia, narrata, nella letteratura apocrifa del Vecchio Testamento, è ambientata, invece, ai tempi in cui Hiram era re di Tiro: ancora un cane, che correndo lungo una spiaggia, trova un mollusco gettato a riva dalle onde; il cane lo addenta ed il suo naso si macchia con il succo del mollusco. Un pastore, lì vicino, con un pezzo di stoffa asciuga il naso del cane e siccome quella tinta gli piace molto, ripiega la striscia di stoffa e se l’avvolge intorno al capo, attirando l’attenzione di tutti. Attira anche quella di re Hiram che lo manda a chiamare. Alla vista di quello splendore, re Hiram incarica i suoi tintori di cercare il mollusco ingrado di produrre quella meraviglia.
Quale era quel mollusco? Si trattava di un gasteropode del genere Murex che possedeva una ghiandola contenete un liquido biancastro il quale, per effetto del sole prima acquista un colore giallo pallido, poi verde, poi blu e infine assume l’impareggiabile color porpora.
Ma come si arrivava al pigmentto per tingere le stoffe? Le modalità di lavorazione erano le seguenti. Dopo aver pescato i molluschi, fquesti venivano messi in ampie vasche; le conchiglie che ricoprivano i molluschi venivano rortte e lasciate a macere. Il pigmento si otteneva proprio durante il periodo di macerazione . A questo punto si diluiva il colore con acqua di mare, a seconda dell’intensità della gradazione desiderata, dal rosso cupo al violetto.
Di questa sostanza, i Fenici ne fecero la voce più importante dei loro trafficci, commerci e della loro industria.
Perfino il loro nome trae origine dalla importanza assunta da questa sostanza: Canaan, infatti, il nome con cui la Bibbia indica il territorio, significa “Terra della porpora” e il termine Fenice, trae origine dal greco ”phoinos”, che significa sangue rosso,

Le tonalità dell porpora erano assai varie, la più ricercata, però, soprattutto dai Romani, era la hyacinthina prodotta a Tiro. Era detta anche Porpora imperiale, perché era quella usata da uomini di potere ed assurta a simbolo di potere e ricchezza per molti secoli.

Le città di Tiro e Sidone divennero i due centri di maggior di grande importanza lungo le coste libanesi, ma molti altri centri sorsero
sulle coste nord Africane e nelle colonie
spagnole. I centri di lavorazione della
tintura, infatti, sorgevano tutti vicino al mare, perché il mollusco doveva avere ancora la ghiandola piena di liquido; lo testimonia la presenza, nelle vicinanze di questi centri, di vere e proprie colline formate dagli strati dei gusci dei molluschi. Piccole montagne, poiché ogn murice (nome del mollusco) poteva fornire solo poche piccole gocce della preziosissima sostanza; ne consegue che occorrevano miliardi di molluschi per soddisfare il fabbisogno di quella specille materia prima.

I Murici divennero presto assai rari, tanto da soddisfare solo le richieste di Re e Papi oltre alle pergamene di preziosi codici. Costituiva, però un’attività che impegnava davvero gran parte della popolazione nelle varie fasi della produzione e de lavoro necessario per ottenere quei meravigliosi tessuti rosso-porpora.

Dai racconti di Plinio il Vecchio, a seguito di un viaggio in Giudea e di una visita ad un
laboratorio di tintura con la porpora, possiamo ricostruire le varie fasi della lavorazione.

La raccolta veniva effettuata con il mare tranquillo e si fermava solo durante i periodi di tempesta. Si raccoglievano i muscoli più grossi e si estraevano le ghiandole, poi si trituravano i gusci che si mettevano a macerare in acqua e sale per qualche giorno; dopo di che, si sciacquavano e si mettevano in acqua calda, mantenuta ad una temperatura costante grazie all’emissione di vapore attraverso un tubo collegato ad un forno vicino; e si lasciavano “cuocere” lentamente per una decina di giorno, permettendo il distacco del tessuto muscolare dalle ghiandole. Quello che si otteneva era un maleodorante liquido verdastro, pieno di residui organici decomposti da togliere.
A questo punto si facevano le prime prove di tintura su campioni di stoffa che venivano immersi nel bagno di tintura così ottenuto ed esposti al sole e si continuava così fino a quando non si otteneva la gradazione di colore desiderata.
Plinio dice anche che si ottenevano più sfumature mescolando diversi tipi di Murice e
aggiunge che, il colore della famosa Porpora di Tiro, ottenuto con una duplice tintura,
fosse stato il risultato della correzione di una tintura mal riuscita.

I vari processi di lavorazione rendevano proibitivo il costo di queste stoffe o anche la semplice decorazione di stoffe eppure, la
richiesta era enorme: indossare la Porpora, era segno esteriore di distinzione e dignità regale, sociale e sacerdotale.
Un fascino ed un coinvolgimento emotivo che catturò e incantò il mondo intero. Catturò ed incantò i Romani che ne fecero un decalogo.
Interamente purpurea era la toga del generale vincitore che sfilava il giorno del suo trionfo; ai Senatori era concessa una larga balza ai bordi delle tuniche e più stretta, invece, quella concessa agli appartenenti all’Ordo Equester… ornamenti anche per consoli, sacerdoti, ecc… Ma furono le donne a lasciarsi stregare da questo colore, al punto da spingere i legislatori ad emettere decreti che ne regolassero l’uso.
Rosso purpureo… un fascino che cattura ancora oggi.

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